Lunedì 26 settembre Jonathan Reeves aveva il turno dalle otto e quindici alle quattordici e quarantacinque, e come al solito era arrivato in anticipo al suo banco. Ma erano le otto e cinquantacinque quando il telefono squillò e la voce che attendeva si fece udire. Caroline sembrava calmissima: solo le sue parole suonavano urgenti.

«Devo vederti. Subito. Puoi assentarti?»

«Credo di sì. Il signor Hammond non è ancora arrivato.»

«Allora ci vediamo in biblioteca. Immediatamente. È importante, Jonathan.»

Non era necessario che glielo dicesse. Non gli avrebbe mai chiesto un appuntamento durante l'orario di lavoro se non fosse stato per qualcosa di veramente importante.

La biblioteca si trovava nell'edificio dell'amministrazione, accanto all'ufficio registri. Fungeva un po' da salotto per lo staff e un po' da biblioteca vera e propria. Tre delle pareti erano coperte da scaffali, c'erano due librerie a giorno e otto comode sedie disposte intorno ad alcuni tavolinetti rotondi. Quando Reeves arrivò, Caroline era già lì ad attenderlo, in piedi accanto all'espositore delle riviste, e sfogliava l'ultimo numero di "Nature". Non c'era nessun altro. Reeves si avvicinò chiedendosi se lei si aspettava un bacio oppure no, ma poi Caroline si voltò a guardarlo ed egli comprese che un gesto d'affetto in quel momento sarebbe stato del tutto fuori luogo. Eppure era il loro primo incontro dopo venerdì sera, la sera che per lui aveva cambiato tutto. «C'è qualcosa che vuoi dirmi?» chiese umilmente Reeves.

«Fra un attimo. Sono le nove. Fai silenzio, ti prego, dobbiamo ascoltare la voce di Dio.»

Reeves si girò di scatto. Era rimasto sorpreso da quel tono come se ciò che Caroline aveva detto fosse stata una specie di oscenità. Non avevano mai parlato del dottor Mair se non a livello superficiale, ma lui aveva sempre avuto la certezza che Caroline lo ammirasse moltissimo e fosse felice di essere l'assistente del direttore. Una volta in cui Caroline era andata con Mair a un certo ricevimento, ricordava di aver sentito Hilary Robarts bisbigliare: «Ecco l'ancella del Signore». Era così che tutti la vedevano: l'ancella intelligente e discreta, bella ma sottomessa, contenta di servire perché riteneva Mair degno di essere servito.

L'intercom crepitò. Poi, in sottofondo, una voce indecifrabile seguita da quella di Mair.

«Credo che, ormai, qui in centrale tutti sappiano che la nostra collega Hilary Robarts è stata trovata morta stanotte sulla spiaggia. In un primo momento sembrava chiaro che a Larksoken si trattava della seconda vittima del Fischiatore del Norfolk, ma pare ora certo che il Fischiatore fosse in realtà morto prima della nostra Hilary. A suo tempo troveremo il modo di esprimere il dolore della nostra comunità per la scomparsa di Hilary Robarts e di Christine Baldwin. Per ora, il suo decesso è oggetto di indagini da parte della polizia, e l'ispettore capo Rickards dell'anticrimine del Norfolk, responsabile delle ricerche condotte sui delitti del Fischiatore, si sta occupando del caso. Questa mattina verrà alla centrale e probabilmente chiederà di poter parlare con coloro che fra voi conoscevano meglio Hilary, e che dunque possono aiutarlo a ricostruire i dettagli della sua vita. Se qualcuno ha qualche informazione, anche piccola, anche trascurabile, da riferire, è pregato di mettersi in contatto con l'ispettore Rickards quando verrà qui, oppure direttamente a Hoveton. Il suo numero di telefono è 499.623.»

L'intercom crepitò di nuovo e poi tacque. Caroline disse: «Chissà quante bozze ha preparato prima che il testo della comunicazione gli andasse a genio. Innocuo, senza impegno, nessuna truculenza ma nulla lasciato al dubbio. E non ci ha nemmeno irritati dicendo che conta su di noi perché proseguiamo nel nostro lavoro, dandoci indirettamente del branco di scolaretti eccitabili. Non spreca né tempo né parole per le cose superflue. Sarà un ottimo funzionario, credimi.»

«L'ispettore capo Rickards... pensi che vorrà interrogarci tutti?»

«Tutti quelli che conoscevano Hilary. Noi inclusi. È per questo che volevo vederti. Quando mi chiamerà, ho intenzione di dirgli che io e te abbiamo passato insieme tutta la serata scorsa, dalle sei alle dieci e mezza. Ovviamente, ho bisogno che tu lo confermi. E tutto dipende, altrettanto ovviamente, dal fatto che nessuno possa smentirlo. È proprio di questo che dobbiamo discutere.»

Per un attimo Jonathan Reeves fu colto da un senso di sgomento. «Ma non è vero! Mi stai chiedendo di mentire. È un'indagine per omicidio, mi sembra pericolosissimo mentire alla polizia, di solito lo scoprono subito.»

Si rendeva conto di aver parlato con l'impulsività e la disperazione di un bambino restio a partecipare a un gioco pericoloso. Continuò a guardare davanti a sé per non incrociare lo sguardo di Caroline, nel timore di ciò che avrebbe potuto scorgervi: supplica, collera, disprezzo...

«Venerdì mi hai detto che i tuoi genitori avrebbero passato la notte di domenica a Ipswich, a casa di tua sorella. Ci sono andati, vero?»

«Sì, ci sono andati» rispose Reeves in tono depresso.

Appunto perché sapeva che non sarebbero stati a casa aveva sperato che Caroline proponesse di incontrarsi di nuovo nel suo bungalow. Ricordava ancora le sue parole: «Sai, ci sono momenti in cui una donna ha bisogno di restare sola. Non lo capisci? Quel che è successo ieri non significa che dovremo passare insieme ogni secondo. Ti ho detto che ti amo, e Dio sa se non te l'ho anche dimostrato. Non ti basta ancora?».

Caroline continuò: «Dunque ieri sera eri solo in casa, no? Se qualcuno ha telefonato o ti ha fatto visita, è evidente che dovrò trovare un'altra soluzione».

«Non è venuto nessuno, no. Dopo pranzo sono rimasto solo, poi sono uscito a fare un giro in macchina.»

«E a che ora sei tornato? Qualcuno ti ha visto parcheggiare in garage? Non è un palazzo grande, no? Magari hai incontrato qualcuno, rientrando, o c'erano le luci spente alle finestre.»

«Avevo lasciato le luci accese. Lo facciamo sempre, quando usciamo e l'appartamento resta vuoto. Mia madre pensa che sia più prudente, almeno diamo l'impressione che ci sia a casa qualcuno. E sono tornato che era già buio. Sono andato fino a Blakeney, volevo starmene da solo a riflettere un po', e ho passeggiato nella palude. Non sono rientrato prima delle dieci e tre quarti.»

Caroline sospirò soddisfatta. «Allora va tutto bene. Hai incontrato qualcuno mentre passeggiavi?»

«No, però in lontananza ho visto una coppia con un cane. Non credo riuscirebbero a identificarmi, anche se mi conoscessero.»

«Dove hai cenato?» Questa volta la voce le uscì brusca e l'interrogatorio sembrò assumere una sfumatura di implacabilità.

«Da nessuna parte. Non avevo fame.»

«Allora è tutto a posto. Siamo al sicuro. E nessuno mi ha spiata nel bungalow. Nessuno avrebbe telefonato o sarebbe venuto. Non succede mai.»

Nessuno mi ha spiata: strano modo di esprimersi, pensò Reeves. Ma Caroline aveva ragione. Il bungalow, scialbo quanto il suo nome, Field View, era completamente isolato su una tetra strada di campagna alla periferia di Hoveton. C'era entrato una volta sola e prima di riaccompagnarla, quel venerdì sera, non gli era mai stato neppure permesso di scortarla fino a casa. La cosa l'aveva sorpreso. Caroline gli aveva confidato di averlo preso in affitto già ammobiliato dai proprietari, che si erano trasferiti in Australia per un anno, presso una figlia sposata, e avevano poi deciso di fermarsi. Ma perché lei avesse deciso di restare in quel posto, proprio non lo sapeva. Senza dubbio avrebbe potuto affittare una casa o un cottage più carino, oppure acquistare un appartamento a Norwich. E quando finalmente aveva varcato la soglia del bungalow, era rimasto colpito dal contrasto fra la volgarità del posto e la serena bellezza di lei. Gli parve di rivedere la moquette marrone del corridoio, il salotto con due pareti tappezzate a righe rosa e due a grandi mazzi di rose, lo scomodo sofà e le due poltrone dalle fodere sudice, il vecchio camino a gas e la piccola riproduzione de Il carro di fieno di Constable, appesa troppo in alto e abbinata alla stampa di una ragazza cinese dalla faccia esageratamente gialla. Caroline non aveva fatto nulla per modificare in meglio l'aspetto della casa, per imprimervi un tocco della propria personalità. Era come se non ne notasse quasi i difetti, la bruttezza. Evidentemente serviva allo scopo, e Caroline non chiedeva di più. Ed era servito anche al loro scopo. Ma già nel corridoio Jonathan aveva provato un brivido di disagio. Avrebbe voluto gridare: «È la prima volta che stiamo insieme, e per me la prima in assoluto. Non possiamo andare in un altro posto? È proprio necessario restare qui?».

Sull'onda di quel sentimento, disse: «Non credo di farcela. Non sarei convincente. L'ispettore Rickards capirà subito che sto mentendo. Avrò un'aria colpevole, imbarazzata».

Ma Caroline aveva assunto una tattica gentile e rassicurante. Con aria paziente e comprensiva, disse: «Ma lui si aspetterà che tu lo sia. Gli dirai che abbiamo passato la notte insieme, facendo l'amore. È un alibi convincente, naturale. Si insospettirebbe di più se tu non avessi l'aria un po' colpevole. Non capisci? L'imbarazzo non farà che rendere più credibile il tuo racconto».

Dunque anche la sua inesperienza, la sua insicurezza, sì, persino la sua vergogna dovevano venire sfruttate nell'interesse di Caroline.

«Senti» riprese lei, «basterà che scambiamo le due notti: fingi che ieri sera sia venerdì sera. Non inventare nulla. Digli cosa abbiamo fatto, che cosa abbiamo mangiato, di cosa abbiamo parlato. Sembrerà vero perché sarà vero. E non potranno prenderci in castagna chiedendoci dei programmi televisivi che non abbiamo guardato.»

«Ma quello che è successo è qualcosa che riguarda solamente noi due.»

«Non più, Jonathan. Un omicidio distrugge la privacy. Abbiamo fatto l'amore. I poliziotti, non illuderti, useranno parole volgari, e se non le pronunceranno a voce alta, le penseranno. Ma abbiamo fatto l'amore nella mia camera, sul mio letto. Lo ricordi?»

Lo ricordava? Oh, sì che lo ricordava. Jonathan Reeves si sentì avvampare. Nonostante il disperato tentativo di trattenerle, gli salirono agli occhi lacrime cocenti. Chiuse le palpebre. Ricordava, naturalmente. Quella camera scialba e quadrata, anonima come una stanza d'albergo di terz'ordine, il miscuglio di eccitazione e terrore che l'aveva quasi paralizzato, i suoi brancolamenti maldestri, i teneri sussurri che si erano trasformati in veri e propri comandi. Be', non era stato tanto ingenuo da pensare che per lei fosse la prima volta. Per lui sì, ma non per lei. Ciò che era accaduto, comunque, non si poteva cambiare. Era stata Caroline a possederlo, non viceversa. Ed era stato un possesso non solo fisico. Per un attimo non riuscì a parlare. Era difficile credere che quei contorcimenti grotteschi ma in qualche modo controllati avessero qualcosa a che fare con la Caroline che ora gli stava tanto vicina, eppure così lontana. Notò, con una percezione acuita dal ricordo, il lindore della sua camicetta a righe bianche e grigie, il taglio della gonna lunga, le scarpe di vernice nera, la semplice catena d'oro e i gemelli assortiti, i capelli color grano maturo pettinati all'indietro e raccolti in un'unica treccia. Era quella la donna che aveva amato, e che ancora amava? L'ideale romantico di un ragazzo, la perfezione fredda e distaccata? Comprese che il loro primo rapporto sessuale aveva distrutto molte più cose di quante ne avesse affermate, che ciò che aveva desiderato e desiderava ancora, ma che aveva perduto per sempre, era un sublime godimento estetico. Ma sapeva anche che a Caroline sarebbe bastato tendere una mano perché lui la seguisse ancora in quel bungalow e in quel letto.

«Ma perché?» riuscì infine a chiedere, in tono avvilito. «Perché? Non sospetteranno certo di te. È ridicolo pensare una cosa del genere. Tu andavi d'accordo con Hilary, vai d'accordo con tutti, qui alla centrale. Sei l'ultima persona che potrebbe interessare alla polizia. Non hai neppure un movente.»

«Ce l'ho, invece. L'ho sempre detestata e odiavo suo padre. Fu lui a rovinare mia madre, a costringerla a vivere in miseria gli ultimi anni della sua vita. E io persi la possibilità di avere un'istruzione adeguata. Sono una semplice segretaria, una stenodattilografa, e non sarò mai nulla di più di questo.»

«Io ho sempre pensato che potresti diventare tutto ciò che vuoi.»

«No, non senza un po' di istruzione. Lo so che ottenere un sussidio di studio è sempre possibile, ma io dovetti abbandonare la scuola per guadagnarmi da vivere. E poi non si tratta solo di me, come ti ho detto, ma anche di quello che Peter Robarts fece a mia madre. Lei aveva fiducia in quell'uomo e aveva investito nella sua fabbrica di materie plastiche tutto ciò che possedeva, tutto ciò che mio padre le aveva lasciato. L'ho odiato per tutta la vita, e odiavo anche lei, a causa di suo padre. Quando la polizia lo scoprirà, non avrò più pace. Ma se posso dimostrare di avere un alibi, allora non dovrò temere nulla. Ci lasceranno in pace tutti e due. Basterà dire che eravamo insieme, è così semplice.»

«Ma non possono pensare che quello che il padre di Hilary ha fatto a tua madre sia un movente ragionevole per un omicidio di questo tipo. È assurdo, è passato troppo tempo.»

«Nessun movente che spinga un essere umano a uccidere un suo simile è mai ragionevole. La gente ammazza per i motivi più strani. E non sopporto i poliziotti. È irrazionale, lo so, ma è sempre stato così, più forte di me. Perciò guido con tanta prudenza: so che non reggerei neanche davanti al più piccolo interrogatorio. La polizia mi fa paura.»

Era vero, ricordò Reeves attaccandosi disperatamente a quel dato di fatto quasi potesse legittimare l'intera richiesta di Caroline: aveva l'ossessione dei limiti di velocità anche quando la strada era perfettamente sgombra, allacciava sempre la cintura di sicurezza e non mancava di controllare ogni giorno le condizioni della macchina. Rammentò anche un episodio molto recente. Tre settimane prima, a Norwich, le avevano scippato la borsa mentre faceva la spesa, e nonostante le proteste di Jonathan si era rifiutata di sporgere denuncia. «È inutile, non la ritroveranno mai. Gli faremmo soltanto perdere tempo. Meglio lasciar perdere, tanto non era questa gran somma.» Sto verificando quello che mi dice, pensò Jonathan, e si sentì istantaneamente travolgere da una vergogna mista a un senso di pietà.

«D'accordo, chiedo troppo» stava dicendo Caroline. «So che hai il culto della verità, della sincerità e di tutti i tuoi ideali da boyscout, ma ti chiedo di sacrificare per una volta la buona opinione che hai di te stesso. È una cosa che non piace a nessuno, tutti abbiamo bisogno di un po' di amor proprio. Immagino tu sia convinto di essere moralmente superiore ad altra gente: ma non ti sembra un'ipocrisia? Dici di amarmi, ma non vuoi mentire per me. Non è una menzogna importante, non danneggerà nessuno. Eppure dici di non poterlo fare. Va contro la tua religione. La tua religione però non ti ha impedito di venire a letto con me, vero? Credevo che i cristiani fossero troppo puri per concedersi fornicazioni casuali.»

Fornicazioni casuali. Le sue parole non erano pugnalate, no, erano qualcosa di peggio: un martellare continuo, un ostinato reiterarsi di percosse su un livido dolente. Neppure nelle prime, meravigliose giornate trascorse insieme era stato capace di parlarle della sua fede. Caroline gli aveva chiaramente fatto capire fin dall'inizio che era una parte della sua vita per la quale non provava né simpatia né, tantomeno, comprensione. E come poteva spiegare che l'aveva seguita in camera da letto senza alcun rimorso perché il desiderio di lei era più forte dell'amore verso Dio? Più forte della fede? Come poteva farle capire che quel gesto non richiedeva altra razionalizzazione e giustificazione al di là del desiderio stesso? Com'era possibile che fosse una cosa sbagliata, quando i suoi nervi e la sua carne gli ripetevano che era giusta e naturale, addirittura sacra?

«D'accordo, lasciamo perdere» disse lei. «Sto chiedendoti troppo.»

«Non si tratta di questo» ribatté Reeves colpito dal suo tono. «Io non sono migliore di nessuno e tu non potresti mai chiedermi troppo. Se per te è così importante, lo farò, naturalmente.»

Caroline lo fissò con aria critica. Stava giudicando la sua sincerità e disponibilità? Reeves udì distintamente il sollievo trapelarle nella voce: «Ascolta, non c'è nessunissimo pericolo. Siamo entrambi innocenti, e lo sappiamo. Quello che diremo alla polizia non è incredibile, potrebbe essere tranquillamente la verità».

Ma era una bugia, e Reeves lesse negli occhi di Caroline che lei gli aveva letto nel pensiero. «Poteva esserlo, ma non lo è» disse.

«Così, questo è ciò che conta per te. E conta più della mia tranquillità, più di quello che credevo provassimo l'uno per l'altra.»

Reeves avrebbe voluto chiederle per quale motivo la sua tranquillità dovesse basarsi su una menzogna; avrebbe voluto chiederle cosa provavano veramente l'uno per l'altra, che cosa provava lei per lui.

Caroline lanciò un'occhiata all'orologio e disse: «In fondo sarà un alibi anche per te, cosa che conta più di tutte, mi pare. Tutti sanno quanto era stata scortese con te dopo quel programma alla radio, no? Il piccolo crociato nucleare. Non l'hai certo dimenticato...».

La brutalità del sottinteso, la nota di impazienza nella voce, tutto gli ispirava un senso di repulsione. «Ma metti che non ci credano» mormorò.

«Oh, non ricominciamo. Perché non dovrebbero crederci? E poi, se anche non ci credessero, che importanza avrebbe? Non potranno mai dimostrare che mentiamo, e questa è l'unica cosa che importa. Dopotutto, è naturale che fossimo insieme. Non ci frequentiamo mica da due giorni, ti pare? Senti, ora io devo tornare in ufficio. Mi terrò in contatto, ma è meglio che stasera non ci vediamo.»

Reeves non si aspettava certo di vederla, quella sera. La notizia dell'ultimo omicidio doveva essere stata trasmessa dalla radio locale, doveva essere passata di bocca in bocca: sua madre avrebbe dunque atteso con ansia che lui rientrasse dal lavoro per sentire le novità sul caso.

Ma c'era lo stesso qualcosa che doveva dirle, prima che se ne andasse. «Ieri sera ti ho telefonato. Ero in giro, mi sono fermato apposta a una cabina per chiamarti. Ma tu non c'eri, Caroline.»

Vi fu un breve silenzio. Dopo quel gesto di inspiegabile coraggio, Reeves le lanciò ora un'occhiata fuggevole e nervosa, ma il viso di lei era una maschera inespressiva. «A che ora?»

«Saranno state le dieci meno venti, forse un po' più tardi.»

«Perché? Perché hai telefonato?»

«Perché avevo bisogno di parlarti. Perché mi sentivo solo, E speravo che cambiassi idea e mi chiedessi di venire da te.»

«E va bene. Tanto vale che te lo dica. Ieri sera sono andata sul promontorio. Ho portato Remus a fare una corsa. Ho lasciato la macchina su una carrareccia appena fuori dal villaggio e sono andata a piedi fino alle rovine dell'abbazia. Devo essere arrivata là poco dopo le dieci.»

«Eri là!» esclamò Reeves in tono inorridito. «E lei dev'essere morta a pochi metri da te!»

«Probabilmente un centinaio» ribatté bruscamente Caroline. «Non era possibile che la trovassi, e non ho visto l'assassino, se è questo a cui stai pensando. Sono rimasta sulla scogliera, senza scendere sulla spiaggia. Se l'avessi fatto, la polizia avrebbe trovato le mie impronte, le mie e quelle di Remus.»

«D'accordo, ma c'era la luna piena: qualcuno potrebbe averti visto.»

«Il promontorio era deserto. E se l'assassino era in agguato tra gli alberi e mi ha visto, difficilmente si farà avanti. Ma non è comunque la situazione più felice in cui potrei trovarmi. Perciò ho bisogno di un alibi. Non avevo intenzione di dirtelo, ma ora lo sai. Non l'ho uccisa io, ma ero là e avevo un movente. Perciò ho chiesto il tuo aiuto.»

Per la prima volta Jonathan colse una sfumatura di tenerezza, quasi di supplica nella voce di Caroline. Gli si avvicinò come se volesse toccarlo, poi indietreggiò; ma era stato un gesto affettuoso, il tentativo di accarezzargli il volto. La sofferenza e l'avvilimento degli ultimi dieci minuti vennero istantaneamente spazzati via da un'ondata di commozione e tenerezza. Aveva l'impressione che le labbra gli si fossero gonfiate fino a rendergli impossibile la parola, ma con un enorme sforzo riuscì a dirle: «Naturalmente ti aiuterò. Io ti amo. Non vorrei deluderti per nulla al mondo. Puoi contare su di me».

 

27

 

Rickards aveva detto ad Alex Mair che sarebbe arrivato alla centrale intorno alle nove, ma prima aveva deciso di fare un salto allo Scudder's Cottage, da Ryan Blaney. Era un compito di una certa delicatezza. Sapeva che Blaney aveva diversi figli, e sarebbe stato necessario interrogare almeno la più grandicella. Ma questo non era possibile in mancanza di una donna poliziotto, e purtroppo c'era stato qualche ritardo nel provvedere a quella necessità. Era una di quelle seccature di poco conto che gli riuscivano difficili da accettare, ma sapeva che fare una visita non proprio rapida ai Blaney senza la scorta di un'agente donna avrebbe potuto sfociare in fastidiose complicazioni. Indipendentemente dal fatto che Blaney fosse un sospettato, non poteva rischiare che qualcuno obiettasse in seguito che le informazioni erano state ottenute da una minore violando le normali procedure del caso. E Ryan Blaney aveva al contempo diritto di sapere cosa ne era stato del suo quadro; se non ci avesse pensato la polizia, molto presto qualcun altro avrebbe provveduto a informarlo. Ed era importante che Rickards fosse presente per vedere la faccia di quell'uomo quando avesse appreso la notizia dello sfregio al ritratto e dell'assassinio di Hilary Robarts.

Raramente aveva visto un luogo più tetro di Scudder's Cottage. Cadeva una pioggerella fine, e Rickards scorse la casa e il giardinetto trascurato attraverso una coltre di nebbiolina che sembrava assorbire forme e colori per trasformare la scena in una massa di grigiore umido e amorfo. Insieme a Oliphant, lasciò l'investigatore Gary Price in macchina e si avviò lungo il vialetto infestato dalle erbacce per raggiungere il portico. Non c'era campanello, e quando Oliphant picchiò il batacchio di ferro, la porta si aprì quasi immediatamente. Davanti a loro c'era Ryan Blaney, nel suo metro e ottanta di altezza, l'espressione stranita. Li accolse con una lunga occhiata ostile. Sembrava che persino i capelli fulvi si fossero scoloriti; Rickards pensò che non aveva mai visto un uomo dall'aspetto così esausto e provato, e tuttavia ancora capace di reggersi in piedi. Blaney non li invitò a entrare, e Rickards non glielo suggerì. Meglio aspettare quando fosse stato in compagnia di un'agente donna. Poteva attendere; ora la cosa più importante era andare alla centrale di Larksoken. Si limitò a riferire che il ritratto di Hilary Robarts era stato rinvenuto, sfregiato, a Thyme Cottage, senza aggiungere altri particolari. Non ottenne la minima reazione. «Mi ha sentito, signor Blaney?» chiese.

«Sì, ho sentito. Sapevo che il ritratto era scomparso.»

«Da quando?»

«Da ieri sera, verso le nove e tre quarti. La signorina Mair era passata a prenderlo: doveva portarlo questa mattina a Norwich. Glielo confermerà. Adesso dove si trova?»

«Nelle nostre mani... per quello che ne resta. Ne avremo bisogno per gli esami della scientifica. Naturalmente le faremo avere una regolare ricevuta.»

«E a cosa mi servirà? Potete tenervi tutto quanto, ricevuta e quadro. Ha detto che è stato fatto a pezzi?»

«No, ha soltanto due tagli, molto netti. Forse potrebbe farlo restaurare. Lo porteremo con noi quando torneremo, così lo identificherà.»

«Non voglio rivederlo, mai più. Tenetevelo pure.»

«Avremo bisogno lo stesso dell'identificazione. Ma ne parleremo meglio quando ci rivedremo. Prima di sera, suppongo. A proposito: quando ha visto il ritratto per l'ultima volta?»

«Giovedì sera, quando l'ho incartato e l'ho lasciato nella baracca dove dipingo. Non ci sono più entrato. Ma perché parlarne? Era la mia opera migliore e quella carogna l'ha distrutta. Chiami Alice Mair o Adam Dalgliesh, per l'identificazione. L'hanno visto tutti e due.»

«Sta dicendomi che sa chi è stato a rovinare il ritratto?» Un altro silenzio. Fu Rickards a romperlo. «Torneremo da lei nel tardo pomeriggio, probabilmente verso le quattro o le cinque, se non ha nulla in contrario. E dovremo parlare anche con i suoi figli. Ci sarà con noi una donna poliziotto. Immagino che adesso siano a scuola.»

«Le gemelle sono al gruppo di gioco. Theresa è a casa, non sta bene. Senta, non è il caso di prendersi tanto disturbo per quel quadro. Da quando la polizia si interessa di certe cose?»

«Gli atti vandalici ci interessano da sempre. Ma in questo caso c'è anche qualcos'altro. Devo informarla che la signora Hilary Robarts è stata assassinata ieri sera.»

Rickards fissò Blaney: era giunto il momento della rivelazione, forse il momento della verità. Impossibile che Blaney ascoltasse la notizia senza tradire qualche emozione: shock, paura, sorpresa... reali o simulati che fossero. Invece, con calma, disse: «Non ha bisogno di dirmi neppure questo. Lo sapevo già. George Jago mi ha telefonato stamattina presto dal Locai Hero».

Davvero? pensò Rickards, e mentalmente aggiunse il nome di Jago all'elenco degli indiziati da interrogare quanto prima. «Theresa sarà in casa, questo pomeriggio, e in condizioni tali da permettermi di rivolgerle qualche domanda?»

«Sarà in casa e starà abbastanza bene, sì.»

Poi, Ryan Blaney richiuse la porta con fermezza.

Oliphant disse: «Dio solo sa perché la Robarts aveva comprato questa catapecchia. Ed erano mesi che cercava di sbattere fuori i Blaney. La gente di qui non vedeva la cosa tanto di buon'occhio».

«Me l'ha già spiegato mentre venivamo qui. Ma se è stato Blaney a ucciderla, non vedo perché attirare l'attenzione su di sé scagliando il ritratto nella finestra di Thyme Cottage. E due reati non connessi fra loro, un omicidio e un atto vandalico, compiuti nella stessa notte, rappresentano una coincidenza davvero troppo strana, non crede?»

La giornata era iniziata male, e l'acquerugiola fredda che gli colava sotto il colletto della giacca aggravava il suo stato di depressione. Sul resto del promontorio non gli sembrava che stesse piovendo, e quasi si era convinto che Scudder's Lane e quel pittoresco quanto squallido tugurio fossero in grado di generare spontaneamente condizioni meteorologiche diverse da quelle dei dintorni. Prima di tornare per un confronto più diretto con Ryan Blaney gli restavano parecchie cose da fare: la prospettiva non era affatto gradevole. Mentre chiudeva a fatica il cancelletto incastrato dietro una zolla di terra, lanciò un'ultima occhiata alla casa. Dal comignolo non usciva un filo di fumo e le finestre, velate dalla salsedine, erano tutte chiuse. Riusciva difficile credere che lì potesse viverci una famiglia, e che il cottage non fosse stato abbandonato già da molto tempo. Poi, alla finestra di destra, scorse un volto pallido incorniciato da capelli ramati. Theresa Blaney li stava spiando.

 

28

 

Venti minuti più tardi i tre poliziotti giungevano alla centrale di Larksoken. Nel parcheggio all'esterno della recinzione perimetrale, vicino alla guardiola, era stato riservato loro un posto macchina. Non appena si avvicinarono, il cancello si spalancò e uno dei guardiani uscì a rimuovere i coni segnaposto. I preliminari richiesero poco tempo. Furono accolti dalla guardia di servizio con una specie di impassibile cortesia, firmarono il registro e infine ricevettero i cartellini dei visitatori da fissare all'occhiello della giacca. Il portiere telefonò per annunciare il loro arrivo, comunicò che fra breve sarebbe arrivata a prenderli l'assistente del direttore, Caroline Amphlett, quindi si disinteressò di loro. Il suo collega, quello che aveva aperto il cancello e rimosso i coni, stava chiacchierando con un tizio robusto vestito da palombaro che reggeva un casco sotto il braccio: doveva essere appena uscito da una delle torri-serbatoio. Nessuno dei presenti sembrava minimamente incuriosito dall'arrivo della polizia: se il dottor Mair aveva dato disposizione che li accogliessero con cortesia ma senza tanto trambusto, non avrebbero potuto fare di meglio.

Dalla finestra della guardiola videro una donna percorrere a passo tranquillo il vialetto di cemento; senza dubbio era la signorina Amphlett. Bionda, fredda e compassata, ignorò lo sguardo sfrontato di Oliphant come se nemmeno fosse stato presente e salutò Rickards in tono solenne. Tuttavia, non ricambiò il suo sorriso pensando forse che si trattasse di una manifestazione inadatta alle circostanze, o forse ancora perché ben pochi visitatori della centrale meritavano un benvenuto tanto caloroso, e un funzionario di polizia certo non rientrava nella schiera dei privilegiati.

«Il dottor Mair la sta aspettando, ispettore capo» disse, e si voltò facendo loro strada. Rickards si sentì alla stregua di un paziente accompagnato nello studio di un luminare della medicina. Osservare un'assistente era un ottimo sistema per capire molte cose sul conto di un uomo, e nella fattispecie la signorina Amphlett non faceva che confermare ciò che già immaginava sul conto di Alex Mair. Pensò a Kim, la sua segretaria, una ragazza di diciannove anni con i capelli perennemente spettinati e vestita secondo i dettami della più bizzarra fra le mode giovanili, una segretaria che non conosceva orari ma non dimenticava mai di accogliere anche il più umile dei visitatori con un sorriso e l'offerta di una tazza di caffè... che comunque era meglio non accettare.

Seguirono la signorina Amphlett fra i grandi prati, in direzione della sede amministrativa e degli impianti di raffreddamento. La donna gli ispirava un senso di profondo disagio e Oliphant, che come al solito avvertiva il bisogno di imporsi, prese a chiacchierare.

«Sulla destra c'è la turbina, signore, e là vede il reattore e l'impianto di raffreddamento. Il laboratorio è sulla sinistra. Si tratta di un reattore termico Magnox, un tipo entrato in funzione per la prima volta nel 1956. Ci hanno spiegato tutto quando siamo venuti in visita ufficiale. Il combustibile è uranio metallico. Per conservare i neutroni e permettere l'utilizzo dell'uranio nativo, il combustibile viene inguainato in una lega di magnesio chiamata appunto Magnox, che presenta tassi di assorbimento neutronico molto bassi. Il nome deriva da questo. Il calore viene poi ottenuto facendo scorrere anidride carbonica sul combustibile, all'interno del nucleo del reattore. Poi l'anidride cede calore all'acqua in un generatore di vapore e il vapore mette in funzione una turbina accoppiata a un generatore elettrico.»

Rickards avrebbe preferito che Oliphant non provasse il bisogno di mettere in mostra le sue superficiali cognizioni in materia di energia nucleare in presenza della signorina Amphlett, e si augurò che quello che stava dicendo fosse esatto. Oliphant continuò: «Naturalmente questo tipo di reattore è ormai superato. Ora viene sostituito da un PWR, un reattore ad acqua pressurizzata, come quello in costruzione a Sizewell. Ho visitato anche Sizewell, signore, lo sapeva? Ho pensato che fosse meglio sapere cosa succede in questi posti».

Rickards pensò: e se davvero lo hai capito, sei ancora più intelligente di quanto credevi.

La stanza al secondo piano della sede dell'amministrazione era immensa. Lo spazio e la luce erano stati sfruttati in modo tale da esaltare la figura che ora si alzò in piedi dietro all'enorme scrivania nera, restando in attesa con aria grave e solenne, mentre i poliziotti si avvicinavano percorrendo la distesa di soffice moquette. Stringendo la mano ad Alex Mair, Rickards prese atto delle caratteristiche salienti dell'ufficio. Due pareti erano dipinte di grigio chiaro, ma a est e a sud le vetrate si aprivano dal pavimento al soffitto offrendo uno smisurato panorama di cielo, mare e promontorio. Era una mattina senza sole, ma l'aria era soffusa di una luce pallida e ambigua, l'orizzonte era sfumato e mare e cielo si perdevano in unico grigiore confuso. Per un attimo Rickards provò una sensazione di leggerezza fantascientifica, e si immaginò sospeso in un'avveniristica unità spaziale. Poi, una nuova immagine si intromise, e gli parve di udire il rombo dei motori nella sala macchine e il fremito della nave che fendeva l'oceano con la sua affilata prua.

C'erano pochissimi mobili. La scrivania sgombra, con una comoda poltrona per i visitatori, era rivolta verso la vetrata a sud e davanti a questa era sistemato un tavolo per le riunioni, con otto sedie. Dirimpetto alle finestre si trovava un altro tavolo, su cui era riprodotto il modello di quello che sospettò essere il reattore pressurizzato di prossima costruzione. Gli bastò un'occhiata per capire che era un prodigio di vetro, acciaio e perspex, realizzato con la stessa cura con cui si confeziona un prezioso gioiello. Alla parete nord era appeso un unico dipinto a olio, di grandi dimensioni: ritraeva un uomo armato di fucile in sella a un cavallo ossuto, su uno sfondo desolato di sabbia e arbusti. In lontananza spiccava una catena montuosa. L'uomo non aveva volto e indossava un formidabile elmo di metallo nero con una feritoia per gli occhi. A Rickards sembrò un dipinto decisamente inquietante. Ricordava vagamente di averne visto una copia, o forse la copia di qualcosa di molto simile, e avrebbe detto che l'autore fosse australiano. Il pensiero che Adam Dalgliesh avrebbe saputo immediatamente dire chi l'aveva dipinto e come si intitolava, lo irritò profondamente.

Alex Mair andò al tavolo delle riunioni, prese una sedia e la portò davanti alla scrivania. Dovevano sedersi tutti di fronte a lui. Dopo un attimo di esitazione, Gary Price prese un'altra sedia per sé ed estrasse il taccuino.

Mentre lo osservava diritto negli occhi grigi e sardonici, Rickards si chiese in che modo lo giudicasse Mair. Gli tornò così alla mente un frammento di conversazione ascoltato per caso alla mensa di New Scotland Yard, molti anni addietro. «Oh, Ricky non è uno stupido. Anzi, è molto più intelligente di quel che sembra.» «Tanto meglio per lui. A me ricorda uno di quei personaggi che si vedono sempre nei film di guerra: il povero figlio di puttana che finisce con la faccia nel fango e una pallottola in petto.»

Be', in quell'inchiesta non sarebbe caduto con la faccia nel fango. Quel posto sembrava ideato apposta per metterlo in soggezione, ma in fondo non era altro che un ufficio. Nonostante la sua sicurezza e la genialità di cui tanto si parlava, Alex Mair era soltanto un uomo, e se aveva ucciso Hilary Robarts sarebbe finito, come molti prima di lui, a guardare il cielo attraverso le sbarre in una cella in cui il mare era soltanto un sogno lontano.

Mentre si accomodavano, Mair esordì: «Immagino che avrete bisogno di un locale in cui interrogare i dipendenti. Avrete a vostra disposizione una stanza nel dipartimento di fisica medica. La signorina Amphlett vi accompagnerà. Non so per quanto tempo ci resterete, ma abbiamo sistemato un piccolo frigorifero e vi troverete tutto il necessario per preparare un tè o un caffè. Oppure, se preferite, potrete farvi servire una bevanda dalla mensa. Naturalmente, potrete anche ordinare un pasto e, a proposito, la signorina Amphlett vi darà il menu di oggi».

«Grazie» disse Rickards. «Il caffè ce lo prepareremo per conto nostro.»

Si sentiva già in svantaggio, e si chiese se non fosse per caso una mossa architettata fin dal principio. Avevano sì bisogno di una stanza per gli interrogatori, e non poteva certo lamentarsi del fatto che la loro esigenza fosse stata prevista con lodevole anticipo. Ma le cose sarebbero cominciate meglio se gli avesse lasciato il privilegio dell'iniziativa e, forse illogicamente, Rickards aveva la sensazione che sentirsi rassicurare circa i pasti e le bevande fosse un tantino umiliante. Lo sguardo che Mair gli rivolgeva era calmo, interrogativo, quasi critico. Sapeva di essere alla presenza del potere, un tipo di potere che tra l'altro non gli era per nulla familiare: il potere intellettuale. Un gruppo di capi della polizia lo avrebbe intimidito molto meno.

«Il suo diretto superiore si è già messo in contatto con il corpo di polizia della Commissione per l'Energia Atomica» riprese Alex Mair. «L'ispettore Johnson vorrebbe scambiare una parola con lei stamattina, prima che abbiano inizio gli interrogatori. Si rende conto che la centrale ricade sotto la giurisdizione della polizia del Norfolk, ma naturalmente ha un interesse specifico per questo caso.»

«Certamente» rispose Rickards. «E saremo lieti della sua collaborazione.»

Sarebbe stata una collaborazione, infatti, non un'interferenza. Conosceva i compiti di quella Commissione, e sapeva che esisteva un potenziale rischio di conflitti di competenza. Ma quella era una faccenda che riguardava essenzialmente l'anticrimine del Norfolk e veniva inquadrata come un'estensione delle indagini sul Fischiatore. Se l'ispettore Johnson era disposto a mostrarsi ragionevole, lo sarebbe stato anche lui; ma si trattava di un problema che non intendeva discutere con il dottor Mair.

Alex Mair aprì un cassetto sulla destra della scrivania e ne estrasse una cartelletta. «Questo era il dossier personale di Hilary Robarts. Naturalmente potete prenderne visione, ma ci troverete solo informazioni molto schematiche: età, titoli di studio, carriera prima che arrivasse da noi nel 1984, come vice amministratrice. Un curriculum vitae in cui non si parla della sua vita privata, insomma: lo scheletro di un'esistenza, niente di più.»

Mair spinse il fascicolo sulla scrivania. Era un gesto stranamente definitivo. Una vita conclusa, finita. Rickards lo prese. «Grazie mille, ci sarà senz'altro utile. Ma forse lei potrà dirci qualcosa di più. La conosceva bene?»

«Molto bene. Per qualche tempo abbiamo avuto una relazione. Lo ammetto, questo non implica niente di più di un'intimità fisica, ma probabilmente la conoscevo meglio di chiunque altro, qui alla centrale.»

Mair parlò con calma, senza mostrare alcun imbarazzo, quasi fosse una cosa priva di importanza, come se lui e Hilary Robarts avessero studiato insieme all'università. Rickards si chiese se non si stesse per caso aspettando di vederlo abboccare subito su quel bocconcino offerto tanto candidamente; invece disse: «Era una donna benvoluta?».

«Era molto efficiente, ma le due cose non sempre vanno di pari passo. Direi che era rispettata e credo fosse simpatica al personale che aveva più direttamente a che fare con lei. La rimpiangeremo tutti, probabilmente più di quanto non rimpiangeremmo altri colleghi di primo acchito più simpatici e benvoluti.»

«Dunque anche lei ne sentirà la mancanza?»

«La sentiremo tutti.»

«Quando è finita la vostra relazione, dottor Mair?»

«Tre o quattro mesi fa.»

«Senza rancori?»

«Senza esplosioni e senza pianti. Da qualche tempo ci vedevamo meno. Attualmente il mio futuro personale è un po' incerto, ma non credo che resterò qui a lungo in veste di direttore. Si arriva al termine di una relazione amorosa come alla fine di un impiego, con la sensazione del tutto naturale che una fase della nostra vita abbia concluso il proprio corso.»

«E la signorina Robarts era della stessa opinione?»

«Credo di sì. Tutti e due avevamo qualche rimpianto, ma non avevamo mai pensato che si trattasse di una grande passione destinata a durare.»

«Non c'era nessun altro uomo?»

«Non che io sappia. Ma non c'è alcun motivo per cui dovrei esserne al corrente.»

«Perciò la sorprenderà sapere che domenica mattina Hilary Robarts aveva scritto al suo legale di Norwich per fissare un appuntamento. Intendeva discutere del suo testamento, e annunciava che presto si sarebbe sposata. Abbiamo ritrovato la lettera fra le sue carte, non era ancora stata spedita, naturalmente.»

Mair sbatté le palpebre un paio di volte senza però mostrare eccessivo imbarazzo. Poi, con calma, disse: «Sì, mi stupisce, ma non so nemmeno io perché. Forse perché mi pareva che conducesse un'esistenza molto solitaria, e mi è difficile comprendere in che modo avesse trovato il tempo e l'occasione per stringere un nuovo legame. Certo è sempre possibile che fosse riapparso un uomo del suo passato e che stessero parlando di matrimonio. Ma, purtroppo, non posso proprio esserle più utile di così».

Rickards cambiò approccio. «Sembra piuttosto diffusa la convinzione che l'ultima inchiesta pubblica sul secondo reattore non le fosse stata di grande aiuto. La signorina Robarts non aveva testimoniato all'inchiesta ufficiale, vero? Non riesco a capire cosa c'entrasse.»

«Infatti. Ufficialmente non c'entrava proprio, ma in una o due riunioni pubbliche si era lasciata imprudentemente innervosire da alcuni provocatori, e durante una delle giornate aperte della centrale lo scienziato che di solito fa da guida al pubblico era ammalato e lei l'aveva sostituito. Forse ha avuto meno tatto del dovuto nei riguardi di qualche curioso. Da quel giorno, comunque, ho dato disposizione che non fosse più messa a contatto diretto con il pubblico esterno.»

«Dunque» chiese Rickards, «era una donna che provocava gli antagonismi?»

«Be', non tanto da provocare un omicidio, ispettore. Era una donna molto appassionata e dedita al suo lavoro, e non era disposta a tollerare ciò che considerava una forma di cocciuto oscurantismo. Non aveva preparazione scientifica, e tuttavia aveva acquisito una considerevole conoscenza dei processi che avvengono qui dentro, e forse anche un rispetto eccessivo per il parere degli esperti. Le avevo fatto notare che era irragionevole aspettarsi che potesse essere condiviso dal largo pubblico: dopotutto, in questi ultimi anni la gente si è sentita continuamente ripetere dagli esperti che i grattacieli non crollano, che nella metropolitana di Londra non possono scoppiare incendi, e che i traghetti della Manica non si capovolgono mai...»

Oliphant, rimasto fino a quel momento in religioso silenzio, disse all'improvviso: «Io ero uno dei visitatori di quella giornata aperta. Qualcuno interpellò la signorina Robarts in merito ai fatti di Chernobil e lei disse, mi pare, che i morti erano stati solo una trentina e che dunque non era il caso di preoccuparsi. Ricordo bene? E così veniva spontaneo domandarsi quanti morti avrebbe considerato degni di nota, la signorina Robarts».

Alex Mair lo guardò come se si stupisse di sentirlo parlare. Poi, dopo un attimo di riflessione, rispose: «Era un'affermazione del tutto giustificata. Provi a confrontare i morti di Chernobil con le vittime dell'industria e delle miniere. Certo, avrebbe potuto esprimere lo stesso concetto con più tatto, su questo non c'è dubbio. Chernobil è un argomento alquanto delicato. Cominciamo a essere stanchi di dover ripetere al pubblico che un reattore russo tipo RBMK soffriva di grosse debolezze dal punto di vista ingegneristico, e soprattutto aveva un coefficiente di potenza positiva ad azione rapida quando il reattore era a basso regime. I modelli Magnox, AGR e PWR non hanno questa caratteristica, a nessun livello, e quindi è impossibile che qui avvenga un incidente del genere. Mi scusi, forse mi sono espresso in termini troppo tecnici, ma voglio semplicemente dire che qui non succederà. Non può succedere, e infatti non è mai successo».

«Non conta molto che qui succeda o no, signore» insisté Oliphant, «il problema sono le conseguenze. Mi risulta che Hilary Robarts avesse querelato qualcuno del posto per diffamazione, proprio in seguito alla visita di cui parlavamo.»

Alex Mair lo ignorò e si rivolse a Rickards. «Credo che lo sappiano tutti, ormai. Secondo me ha compiuto un errore, Hilary aveva tutte le ragioni del mondo, ma non era probabile che ottenesse alcuna soddisfazione rivolgendosi al tribunale.»

«Lei aveva cercato di dissuaderla, nell'interesse della centrale?» chiese Rickards.

«E anche nel suo, sì certo.»

Il telefono sulla scrivania squillò. Mair premette un tasto. «Non ci vorrà molto, gli dica che richiamo io fra una ventina di minuti.» Rickards si chiese se quella telefonata fosse stata concordata in anticipo. Quasi a confermare il suo sospetto, Mair riprese: «Data la mia passata relazione con la signorina Robarts, immagino vorrà conoscere i miei spostamenti nella giornata di domenica. Posso dirglieli subito. Suppongo che anche lei abbia davanti ore di duro lavoro».

In poche parole, lo stava gentilmente invitando a venire al dunque. «Certo sarebbe molto utile se lei ce ne parlasse» rispose Rickards in tono fermo. Gary Price abbassò istantaneamente la testa sul taccuino, come se qualcuno lo avesse rimproverato di una vergognosa marachella.

«I miei movimenti non hanno alcuna importanza fino a domenica sera, ma tanto vale che vi parli dell'intero fine settimana. Sono partito da qui poco dopo le dieci e tre quarti di venerdì e ho raggiunto Londra. Ho pranzato con un vecchio compagno di università al Reform Club e alle due e mezza ho avuto una riunione con il segretario permanente del Dipartimento dell'Energia. Poi sono andato nel mio appartamento a Barbican, e la sera ho visto La bisbetica domata al Barbican Theatre, in compagnia di tre amici. Se più tardi avrà bisogno della loro conferma, il che mi sembra improbabile, naturalmente sarò lieto di fornirle i loro nomi. Sono tornato in macchina a Larksoken la domenica mattina, ho pranzato in un pub lungo la strada e sono arrivato a casa verso le quattro. Ho preso un tè, sono andato a fare una passeggiata sul promontorio e quindi sono rientrato al Martyr's Cottage, un'ora più tardi, direi. Intorno alle sette ho cenato con mia sorella e alle sette e mezzo o poco più sono uscito per venire alla centrale. Ho lavorato qui, solo, nella sala computer fino alle dieci e mezzo, quindi sono tornato a casa. Mentre viaggiavo sulla costiera, l'ispettore Dalgliesh mi ha fermato e mi ha detto che Hilary Robarts era stata assassinata. Il resto lo sa già.»

«Non proprio, dottor Mair. Siamo arrivati sul posto con un certo ritardo. Non ha toccato il cadavere, per caso?»

«Mi sono fermato a guardarlo, ma non l'ho toccato. Dalgliesh ha fatto il suo lavoro con molto scrupolo... o dovrei dire che ha fatto il vostro lavoro con molto scrupolo. Mi ha ricordato che non dovevo toccare nulla, così sono andato a passeggiare in riva al mare fino a quando è arrivato lei.»

«Ci viene spesso, qui, la domenica sera, a lavorare?» si informò Rickards.

«Direi sempre, se devo passare il venerdì a Londra. Al momento c'è molto lavoro ed è impossibile sbrigarlo in cinque giorni. Mi sono fermato meno di tre ore, ma sono state davvero preziose.»

Se Mair aveva trovato la domanda poco pertinente, non lo disse. «Ero impegnato in una ricerca, lo studio del comportamento del reattore nel caso ipotetico di un incidente causato da una perdita di liquido refrigerante. Naturalmente non sono l'unico a occuparmi di quella che è una delle aree più importanti della ricerca nella progettazione dei reattori nucleari. In questo campo di studi esiste una grossa cooperazione a livello internazionale. In pratica, io valuto i possibili effetti dell'eventuale perdita di refrigerante avvalendomi di modelli matematici che vengono esaminati con l'analisi numerica e programmi di informatica avanzata.»

«E lavora solo, qui a Larksoken?» chiese Rickards.

«Nella centrale sì. Studi analoghi vengono eseguiti a Winfrith e in molti altri Paesi del mondo, Stati Uniti inclusi. Come ho detto, su questo piano la cooperazione internazionale è notevole.»

Oliphant intervenne all'improvviso: «È la cosa peggiore che possa succedere, una perdita di refrigerante?».

Alex Mair lo fissò per un momento nel tentativo di decidere se una domanda proveniente da quella fonte meritasse risposta, poi disse: «La perdita di refrigerante è potenzialmente molto pericolosa. Naturalmente vi sono procedure d'emergenza qualora l'impianto di raffreddamento presentasse un'avaria. L'episodio di Three Mile Island, negli Stati Uniti, ha messo in risalto la necessità di saperne di più circa la portata e la natura del rischio di un incidente del genere. Il fenomeno da analizzare si suddivide in tre casi principali: gravi danni al combustibile e fusione del nocciolo, migrazione dei prodotti della fissione e degli aerosoli tramite il circuito primario di raffreddamento e comportamento dei prodotti della fissione nel combustibile e nel vapore liberatisi nell'edificio che ospita il reattore. Se ha un vero interesse per la ricerca e una conoscenza sufficiente per comprenderli, posso fornirle alcuni testi sull'argomento. Ma questa non mi sembra né l'occasione, né il luogo in cui decidere di migliorare la sua educazione scientifica».

Oliphant sorrise come se quel rimprovero lo gratificasse. «Lo scienziato che si è ucciso, il dottor Toby Gledhill, non lavorava insieme a lei proprio in questa ricerca? Mi pare di aver letto qualcosa in merito su uno dei giornali locali.»

«Sì, era il mio assistente. Tobias Gledhill era un fisico ed era anche un esperto di computer eccezionalmente dotato. Lo rimpiangiamo molto, come collega e come uomo.»

E questo liquida anche Toby Gledhill, pensò Rickards. Sulle labbra di un altro sarebbe suonato come un omaggio commovente, nella sua semplicità. Ma pronunciato da Mair era un epitaffio sbrigativo e sgradevole. In ogni caso, un suicidio era sempre un fatto imbarazzante: Mair doveva trovare disgustosa la loro intrusione in quel mondo altrimenti perfettamente organizzato.

«Purtroppo stamattina sono molto occupato, ispettore» disse Mair. «E senza dubbio avrà da fare anche lei. Crede che dilungarci su questo tema sia di vitale importanza?»

«Serve a completare il quadro, lei capisce» rispose Rickards senza cedere. «Immagino che quando ieri sera è arrivato qui, abbia firmato. E anche quando è uscito per tornare a casa.»

«Ha visto come funziona il nostro sistema. Ogni dipendente ha un proprio distintivo con la sua firma, una fotografia e un numero personale e riservato. Il numero viene elettronicamente registrato all'arrivo della persona, e inoltre vi è un controllo visivo del distintivo da parte del personale di guardia al cancello. In totale qui lavorano cinquecentotrenta persone, suddivise in tre turni che coprono le ventiquattr'ore. Durante il fine settimana i turni si riducono a due: il personale diurno viene dalle otto e un quarto del mattino alle otto e un quarto della sera, quello notturno dalle otto e un quarto di sera alle otto e un quarto del mattino successivo.»

«E nessuno può entrare e uscire inosservato, neppure il direttore?»

«Nessuno, e io meno di tutti, immagino. L'ora del mio arrivo è registrata, e il guardiano al cancello mi ha visto entrare e uscire.»

«Non esiste altro modo di entrare nella stazione se non passando dalla guardiola?»

«No, a meno di non voler emulare gli eroi dei vecchi film di guerra e scavare un tunnel sotto la recinzione. Ma non c'era nessuno a scavare, qui, domenica sera.»

«Avremo bisogno di conoscere i movimenti di tutto il personale nella giornata di domenica, dalle prime ore della sera fino alle dieci e mezzo, quando l'ispettore Dalgliesh ha scoperto il cadavere.»

«Non è un lasso di tempo eccessivo? Senza dubbio Hilary è stata uccisa poco dopo le nove.»

«Sembra l'ora più probabile, e il referto dell'autopsia ce lo confermerà. Tuttavia, per adesso preferisco non sbilanciarmi. Abbiamo le copie dei moduli distribuiti nel corso delle indagini sul Fischiatore, e vorremmo consegnarli al personale. Immagino che la stragrande maggioranza si possa escludere facilmente a priori. Molti che hanno una famiglia o una vita sociale di qualche tipo potranno dimostrare il proprio alibi. Potrebbe forse suggerirci il sistema più veloce e di minor disturbo per distribuire i moduli?»

«Credo che il sistema più efficace sia lasciarli nella guardiola. Ogni dipendente ne riceverà uno entrando. I dipendenti che oggi sono in malattia o in permesso li riceveranno a casa. Posso fornirle nomi e indirizzi.» Alex Mair tacque per un momento, poi aggiunse: «Mi sembra molto improbabile che questo delitto abbia a che fare con la centrale, ma dato che Hilary Robarts lavorava qui e lei vorrà interrogare tutto il personale, potrebbe esserle utile conoscere un po' meglio la nostra organizzazione. La mia assistente le ha preparato un fascicolo con una pianta della centrale, un opuscolo con la descrizione dell'attività del reattore che la aiuterà a farsi un'idea delle diverse funzioni svolte, un elenco dei dipendenti con i relativi incarichi e una copia dell'organigramma esistente e dei turni. Se desidera visitare qualche settore in particolare, le procurerò un accompagnatore. Naturalmente, in certe aree non si può entrare senza indumenti protettivi e uscire senza sottoporsi a un controllo radiologico».

Il fascicolo era pronto nel cassetto di destra, e Mair lo porse all'ispettore. Rickards lo prese e si mise subito a studiare l'organigramma. Dopo un attimo di pausa, disse: «Vedo che avete sette divisioni, ognuna con un capo responsabile: Fisica Medica, Chimica, Operazioni, Manutenzione, Fisica del reattore, Ingegneria e Amministrazione... quest'ultimo era l'incarico di Hilary Robarts».

«Amministratrice, sì. Ma si trattava di un incarico temporaneo. L'amministratore della centrale è morto di cancro tre mesi fa e il posto non è ancora stato assegnato. Inoltre, stiamo per riorganizzare l'amministrazione interna in tre divisioni principali, come a Sizewell, dove vige un sistema che mi pare più efficiente e razionale. Ma qui il futuro è incerto, come probabilmente già saprà, e forse sarebbe più opportuno attendere fino a quando entrerà in carica il nuovo direttore della centrale.»

«E al momento» disse Rickards, «l'amministratore rispondeva a lei tramite il vicedirettore?»

«Tramite il dottor James Macintosh, appunto. Attualmente il dottor Macintosh è negli Stati Uniti per motivi di ricerca. È partito il mese scorso.»

«E il sovrintendente alle Operazioni è Miles Lessingham, che era alla cena offerta giovedì sera dalla signorina Mair.»

Alex Mair non rispose.

Rickards continuò: «Ha avuto sfortuna, dottor Mair. Tre morti violente fra i suoi dipendenti nello spazio di due mesi. Prima il suicidio del dottor Gledhill, poi l'uccisione di Christine Baldwin per mano del Fischiatore e adesso Hilary Robarts».

«Dubita forse che Christine Baldwin sia stata veramente uccisa dal Fischiatore?» chiese Mair.

«No, assolutamente. I suoi peli sono stati trovati insieme a quelli delle altre vittime quando l'assassino si è suicidato, e il marito, che normalmente sarebbe stato il primo indiziato, ha un alibi che regge. Lo hanno riaccompagnato a casa alcuni amici, quella sera.»

«E la morte di Toby Gledhill è stata oggetto di un'inchiesta. "Suicidio in un momento di raptus": è una frase di rito che riesce a sistemare anche i problemi di ordine religioso.»

«Ed era veramente uno squilibrato mentale, signore?» intervenne di nuovo Oliphant.

Mair gli rivolse uno sguardo ironico. «Questo non posso saperlo, sergente. Sono certo che si è ucciso, e senza l'intervento di nessuno. Evidentemente pensava di avere sufficienti ragioni per farlo. Il dottor Gledhill era un maniaco-depressivo. Affrontava con grande coraggio questa sua... pecca, e raramente la cosa influiva sul suo lavoro. Ma con una simile struttura psicologica, il suicidio rappresenta sempre un rischio superiore alla media. E se ammette che non esistono relazioni particolari fra le tre morti, non è necessario che perdiamo tempo con le prime due. Oppure le sue parole, ispettore capo, avevano il significato di una generica commiserazione?»

«Era solo un commento» rispose Rickards. «Uno dei suoi collaboratori, Miles Lessingham, ha trovato il corpo di Christine Baldwin. Ci ha detto che stava venendo a cena da lei e dalla signorina Mair. Immagino vi abbia regalato una descrizione particolareggiata della sua disavventura. Una cosa naturale, direi. È difficile tenere per sé una simile esperienza.»

Mair gli rispose con calma. «Direi impossibile, non è d'accordo? E poi, tra amici...»

«Infatti era fra amici. Inclusa la signorina Robarts. Dunque avete ascoltato tutti i dettagli sanguinosi della vicenda, inclusi quelli che gli avevo raccomandato di non diffondere.»

«Quali, ispettore capo?»

Invece di rispondere, Rickards disse: «Potrei conoscere i nomi di coloro che erano presenti al Martyr's Cottage nel momento in cui arrivò il signor Lessingham?».

«Certo. Io, mia sorella, Hilary Robarts, la signora Dennison che è la governante della Vecchia Canonica e l'ispettore Adam Dalgliesh, della Polizia di Londra. E la figlia dei Blaney - mi pare si chiami Theresa - che aiutava mia sorella in cucina.» Mair si interruppe, poi riprese: «I questionari che ha in mente di distribuire a tutti i dipendenti... immagino sia proprio necessario. Ma non le sembra già abbastanza chiaro quello che è successo? Senza dubbio si tratta di ciò che voi chiamate un delitto in fotocopia».

«Appunto, dottor Mair. Tutti i dettagli sono esatti. Molto ingegnoso, molto convincente. Ci sono due sole differenze: questo assassino conosceva la vittima, ed è sano di mente.»

Cinque minuti più tardi, mentre seguiva la signorina Amplilett verso la stanza riservata agli interrogatori, Rickards pensò: e tu sei un tipo molto lucido e freddo, amico. Niente espressioni di orrore o di angoscia, che suonano sempre insincere; niente proteste d'innocenza. Tu credi che nessuno con la testa sulle spalle possa sospettarti di omicidio. Alex Mair non aveva richiesto la presenza di un avvocato, e non ne aveva bisogno. Tuttavia era troppo intelligente perché gli fosse sfuggito il significato delle domande a proposito della cena. Chi aveva ucciso Hilary Robarts sapeva che sarebbe andata a nuotare al chiaro di luna poco dopo le nove, e sapeva anche, esattamente, in che modo il Fischiatore uccideva le sue vittime. C'era parecchia gente che ormai conosceva uno di questi due fatti: ma quelli che li conoscevano entrambi, erano pochi. E sei di loro erano presenti alla cena del giovedì precedente, al Martyr's Cottage.

 

29

 

La stanza per gli interrogatori era un piccolo ufficio con vista a occidente, ma il panorama era dominato dall'enorme mole dell'edificio che ospitava la turbina. L'arredamento era consono alle esigenze della polizia, ma appena sufficiente; in pratica, pensò Rickards con una certa irritazione, quel che la centrale aveva voluto riservare a ospiti tollerati ma non certo graditi. C'erano una scrivania moderna, chiaramente trasportata dall'ufficio privato di qualcuno, tre sedie e una poltroncina più comoda con braccioli, un tavolino con un bollitore elettrico sistemato su un vassoio, quattro tazze con i relativi piattini (forse Mair aveva intuito la loro disposizione a offrire un tè anche agli interrogati?), una ciotolina piena di zollette di zucchero e tre confezioni di tè.

«Che cosa ci hanno rifilato, Gary?» domandò.

Gary esaminò le scatole. «Tè e caffè in bustine, signore. E una scatola di biscotti.»

«Che genere di biscotti?» volle sapere Oliphant.

«Sono Digestive, sergente.»

«Al cioccolato?»

«No, sergente, semplici Digestive.»

«Bene speriamo che non siano anche radioattivi. Metta su il bollitore, cominceremo con un caffè. Ma l'acqua dove possiamo prenderla?»

«La signorina Amphlett ha detto che c'è un rubinetto nel bagno in fondo al corridoio. E poi, il bollitore è già pieno.»

Oliphant provò una sedia e si stirò saggiandone la comodità. Il legno scricchiolò. «Freddino, il tipo, eh?» disse. «E furbo. Non ha detto molto, ora della fine.»

«Non proprio, sergente. Abbiamo appreso sulla vittima molto più di quanto lui si renda conto. Efficiente ma non benvoluta, incline a intromettersi in faccende che esulavano dalle sue competenze, con ogni probabilità perché in cuor suo avrebbe voluto essere una scienziata e non una burocrate. Intransigente, aggressiva, intollerante nei confronti delle critiche. Irritava gli abitanti del posto e di quando in quando causava anche fastidi alla centrale. E naturalmente era l'amante del direttore, per quello che poteva contare la relazione.»

«Ma solo fino a tre o quattro mesi fa. Una conclusione naturale, senza rancori. Questa almeno è la versione di Mair» puntualizzò Oliphant.

«Certo, ma la versione della vittima non la sentiremo mai. C'è una cosa che mi sembra strana: quando Mair ha incontrato l'ispettore Dalgliesh, stava rincasando da qui. La sorella lo aspettava, ma a quanto pare lui non le ha telefonato. Non gli è neppure passato per la mente.»

«Sarà stato lo shock, signore. Pensava ad altro. Aveva appena scoperto che la sua ex amante era stata vittima di un assassino psicopatico: una cosa del genere credo che possa far passare in secondo piano anche un sentimento fraterno.»

«Può darsi, ma mi domando se la signorina Mair abbia telefonato qui per accertarsi del motivo del suo ritardo. Mi ricordi di chiederlo.»

«E se non avesse telefonato, potrebbe esserci una buona ragione lo stesso» ribatté Oliphant. «Magari prevedeva la possibilità che il fratello facesse tardi. Pensava che fosse a Thyme Cottage con Hilary Robarts.»

«Se non ha telefonato perché questo è ciò che credeva, allora non poteva sapere che la Robarts era morta. Bene, sergente, mettiamoci al lavoro. Per prima cosa scambieremo un paio di chiacchiere con la signorina Amphlett. Di solito, l'assistente personale del grande capo sa molto di più sull'organizzazione dell'azienda di quanto ne sappia chiunque altro, grande capo compreso.»

Ma se Caroline Amphlett aveva qualche informazione interessante, era abilissima nel nasconderla. Sedette sulla poltroncina con la calma e la sicurezza di chi si presenta al colloquio per un posto di lavoro che è ormai certo di ottenere, e rispose alle domande di Rickards senza la minima emozione, tranne quando lui cercò di sondare i rapporti fra Hilary Robarts e il direttore. Allora si permise una smorfia di disgusto nel constatare che qualcuno poteva essere così volgarmente curioso nei riguardi di faccende private altrui e in tono severo disse che il dottor Mair non le aveva mai fatto confidenze personali. Ammise di essere al corrente che Hilary Robarts aveva l'abitudine di andare a nuotare di notte e che continuava a farlo fino ad autunno inoltrato. Pensava che a Larksoken lo sapessero tutti, o quasi: la signorina Robarts era stata una nuotatrice abile e resistente. Il Fischiatore non l'aveva mai spaventata più di tanto, nonostante avesse preso alcune ragionevoli precauzioni come evitare di passeggiare sola la notte, e dei suoi metodi non sapeva nulla, tranne ciò che aveva appreso dai giornali, e cioè che strangolava le sue vittime. Aveva saputo della cena al Martyr's Cottage: le pareva che vi avesse accennato Miles Lessingham, ma nessuno aveva parlato con lei di quello che era successo quella sera, e nessuno ne aveva avuto motivo.

In quanto ai suoi movimenti nella giornata di domenica, aveva passato tutta la sera, a partire dalle sei, nel suo bungalow, in compagnia del suo amico Jonathan Reeves. Erano rimasti insieme fino a quando lui se n'era andato, alle dieci e mezzo circa. Lo sguardo freddo che rivolse a Oliphant sembrava sfidarlo a chiedere cosa avessero fatto insieme, ma il sergente resistette alla tentazione e si limitò a domandare cosa avevano mangiato e bevuto. Circa i suoi rapporti con Hilary Robarts, disse che le aveva sempre portato rispetto senza tuttavia trovarla particolarmente simpatica o antipatica. I rapporti professionali erano stati corretti e amichevoli, ma non ricordava che si fossero mai incontrate al di fuori della centrale. Per quanto le risultava, la signorina Robarts non aveva nemici; e nemmeno immaginava chi potesse volerla morta, naturalmente. Quando la porta si richiuse alle sue spalle, Rickards commentò: «Controlleremo il suo alibi, ma non c'è fretta. Prima voglio parlare con il personale che lavorava direttamente per la Robarts».

Per un'altra ora non ottennero nessun risultato interessante. I diretti collaboratori di Hilary Robarts erano più sconvolti che addolorati, e la loro testimonianza rafforzava l'immagine di una donna più rispettata che benvoluta. Ma nessuno aveva un movente, nessuno ammetteva di aver saputo in quale modo, esattamente, il Fischiatore uccideva le sue vittime e, cosa ancora più importante, tutti avevano un alibi per domenica sera. D'altronde, Rickards non si era aspettato nulla di diverso.

Dopo un'ora mandò a chiamare Jonathan Reeves. Entrò pallidissimo e rigido, con l'aria di un condannato al patibolo, e la prima reazione dell'ispettore fu di sorpresa al pensiero che una donna piacente come Caroline Amphlett si fosse scelta un compagno tanto inverosimile. Non che Reeves avesse una faccia particolarmente disgustosa: non la si poteva neppure definire scialba, a parte l'acne. I lineamenti, presi singolarmente, erano anzi piuttosto belli. Ma nel complesso aveva un volto tutt'altro che degno di nota, quel tipo di faccia che sfidava ogni tentativo di ricostruire un eventuale identikit. Rickards decise che era più facile descriverla in termini di movimento: il battito quasi continuo delle palpebre dietro gli occhiali dalla montatura di corno, il perenne mordicchiamento delle labbra, l'abitudine di tendere all'improvviso il collo, come certi comici alla TV. Grazie all'elenco fornito da Alex Mair, Rickards sapeva che i dipendenti di Larksoken erano in prevalenza uomini. La Amphlett non aveva dunque potuto trovare niente di meglio? Ma l'attrazione fisica era qualcosa di puramente irrazionale. Bastava pensare a lui e Susie. Quando li vedevano insieme, gli amici di Susie dovevano provare la stessa sorpresa.

Lasciò quasi tutte le domande dettagliate a Oliphant, e fu uno sbaglio. Quando si trovava di fronte a un individuo spaventato, riusciva sempre a fare del suo peggio, e anche questa volta ce la mise tutta per strappare a Reeves, non senza soddisfazione, la conferma della versione di Caroline Amphlett.

Poi, quando il teste fu finalmente libero di andarsene, Oliphant commentò: «Era nervoso come un gatto, signore. Per questo ho insistito tanto. Credo abbia mentito».

Sperare nel peggio era tipico di Oliphant, pensò Rickards. «No, non è detto che mentisse, sergente. Era impaurito e imbarazzato. È una vera sfortuna che la tua prima notte di passione si concluda con un interrogatorio non troppo delicato da parte della polizia. Ma l'alibi sembra abbastanza solido, e nessuno dei due ha un movente plausibile. Inoltre, nulla dimostra che conoscessero i dettagli delle abitudini del Fischiatore. Passiamo a qualcuno che invece dovrebbe saperne di più. Voglio Miles Lessingham.»

Rickards lo aveva incontrato sulla scena del delitto in cui era rimasta uccisa Christine Baldwin. Quando, il mattino seguente, Miles era andato a firmare la deposizione, lui non era più di turno. Capiva che il tentativo di sfoggiare un'ironia sarcastica e un controllato distacco sul luogo del precedente delitto erano dovuti soprattutto allo shock e al disgusto; ma aveva anche intuito che Lessingham provava per la polizia una diffidenza molto prossima all'antipatia. Non era un fenomeno raro, ormai, neppure fra il ceto medio. E senza dubbio si trattava di un dato di fatto giustificabile. Ma questo non aveva reso più facili le cose allora, e non le rendeva nemmeno adesso. Al termine degli usuali preliminari, Rickards chiese: «Sapeva quali rapporti intercorrevano fra il dottor Mair e la signorina Robarts?».

«Lui è il direttore, lei era vice amministratrice, o amministratrice supplente.»

«Mi riferivo a rapporti di natura più intima.»

«Nessuno mi aveva detto nulla. Ma, visto che nemmeno io sono insensibile nei confronti degli altri mortali, mi sembrava decisamente probabile che potessero essere amanti.»

«E sapeva che tra loro era tutto finito?»

«Lo immaginavo. Non si erano confidati con me, né all'inizio, né alla fine. È meglio che lo chieda direttamente al dottor Mair, se vuole qualche altro particolare della sua vita privata. Io ho già abbastanza problemi a gestire la mia.»

«Ma non aveva notato difficoltà o tensioni generate dalla loro relazione? Risentimenti, accuse di favoritismo, magari gelosie?»

«Da parte mia no, le assicuro. I miei interessi sono diversi.»

«E la signorina Robarts? Secondo lei dava l'impressione che la storia fosse finita senza rancore? Non le sembrava sconvolta, ad esempio?»

«Se lo era, non veniva certo a piangere sulla mia spalla. D'altra parte, sarebbe stata proprio l'ultima spalla che avrebbe scelto.»

«Dunque non ha idea di chi possa averla uccisa?»

«No.»

Vi fu un attimo di silenzio, quindi Rickards tornò a chiedere: «Le era simpatica?».

«No.»

Rickards rimase sconcertato per qualche secondo: era una domanda che aveva formulato spesso nelle indagini per omicidio, e non certo inutilmente. Pochi dei sospettati ammettevano di detestare la vittima senza precipitarsi in un confuso tentativo di spiegazione o giustificazione. Dopo un breve silenzio, quando comprese che Lessingham non intendeva chiarire oltre la sua ultima affermazione, domandò: «Perché, signor Lessingham?».

«Non ci sono molte persone che io giudico veramente simpatiche, e Hilary Robarts non era una di loro. Non c'erano motivi particolari. Ma è necessario trovarne? Lei e il suo sergente potreste anche non trovarvi simpatici, per quel che ne so: ma questo non significa che uno dei due sta meditando di ammazzare l'altro. E, a proposito del delitto, dato che immagino di essere stato convocato per questo, ho un alibi per domenica sera. Forse è meglio che ve lo dica subito. Ho una barca a vela, un dodici metri, ancorata a Blakeney. Sono uscito con la marea del mattino e sono rimasto fuori fin verso le dieci di sera. Ho un testimone per la partenza, Ed Wilkinson, che tiene il suo peschereccio ormeggiato di fianco alla mia barca; ma non ho testimoni per il ritorno. Al mattino c'era abbastanza vento per navigare; poi ho gettato l'ancora, ho pescato un paio di merluzzi e qualche merlano e li ho cucinati per pranzo. Avevo portato viveri, del vino, un paio di libri e la mia radio. Non mi occorreva altro. Forse non è l'alibi più soddisfacente che ci sia, ma ha comunque il pregio di essere semplice e soprattutto vero.»

«Aveva con sé un canotto?» intervenne Oliphant.

«Avevo il gommone sul tetto della cabina. E, a rischio di insospettirvi, devo ammettere che avevo con me anche la mia bici smontabile. Però non sono sceso a terra né al promontorio di Larksoken, né altrove, neppure allo scopo di assassinare Hilary Robarts.»

«Ha visto per caso la signorina Robarts, nel corso della sua gita in barca? Quando è stata uccisa, era visibile dal mare?» chiese Rickards.

«Non mi sono spinto così a sud. E non ho visto nessuno, né vivo né morto.»

«Ha l'abitudine di uscire solo con la barca, durante i fine settimana?» si intromise di nuovo Oliphant.

«Non ho abitudini fisse. Spesso uscivo con qualche amico, ma ora vado solo.»

Poi Rickards gli chiese del ritratto di Hilary Robarts, dipinto da Ryan Blaney. Lessingham ammise di averlo visto. George Jago, del Locai Hero di Lydsett, l'aveva messo in mostra nel bar per una settimana, evidentemente su richiesta dell'autore. Non sapeva dove Blaney lo tenesse di solito, e non l'aveva né rubato, né distrutto. Se qualcuno si era preso la briga di farlo, con ogni probabilità era stata proprio la Robarts.

«E secondo lei l'avrebbe scagliato contro la finestra di casa sua?»

«Forse, sergente, lei ritiene che da parte sua sarebbe stato più logico sfregiarlo e usarlo per sfondare i vetri di Blaney: su questo sono d'accordo. Ma chiunque sia stato a rovinare quel quadro, di certo non è Blaney stesso.»

«Come può esserne tanto sicuro?» insisté Oliphant.

«Perché un artista creativo, sia esso un pittore o uno scienziato, non distrugge la sua opera migliore.»

«Alla cena della signorina Mair lei ha fatto agli altri invitati una descrizione particolareggiata dei metodi del Fischiatore, includendo dettagli che le avevamo raccomandato di non divulgare.»

«È un po' difficile arrivare a una cena con due ore di ritardo senza fornire una spiegazione e la mia, dopotutto, era piuttosto fuori del comune. Ho pensato che avessero diritto a qualche esclusiva. A parte questo, per tacere avrei avuto bisogno di un autocontrollo superiore alle mie forze di quel momento. Naturalmente, voi siete abituati a ritrovare cadaveri sfigurati anche peggio di così, ma quelli di noi che hanno optato per professioni meno eccitanti li trovano sconvolgenti. Sapevo che gli altri ospiti non avrebbero chiacchierato con la stampa, e a quanto mi risulta nessuno l'ha fatto. Comunque, perché volete sapere cos'è successo giovedì sera? Era invitato anche Adam Dalgliesh, quindi disponete di un testimone più esperto e, dal vostro punto di vista, ben più attendibile. Non dico che sia una spia della polizia... questo sarebbe ingiusto...»

Per la prima volta negli ultimi minuti, Rickards aprì bocca: «Infatti: lo troverei inesatto, oltre che offensivo».

Lessingham si girò a guardarlo con molta calma. «Appunto. Perciò non l'ho detto. E ora, se non avete altre domande, ho una centrale nucleare da mandare avanti.»

 

30

 

Era mezzogiorno passato quando alla centrale di Larksoken gli interrogatori terminarono e Rickards e Oliphant si prepararono ad andare al Martyr's Cottage. Lasciarono Gary Price a occuparsi dei questionari e si accordarono per ripassare a prenderlo dopo l'incontro con Alice Mair che, secondo l'ispettore, si sarebbe rivelato più fruttuoso se a presentarsi alla porta fossero stati in due. Alice li ricevette con calma, senza tradire particolare ansia o curiosità. Lanciò una breve occhiata ai loro distintivi e li invitò a entrare. Rickards si sentiva come un tecnico arrivato in leggero ritardo per una riparazione alla lavatrice. Il colloquio si sarebbe svolto in cucina. In un primo momento la cosa gli sembrò strana, ma poi si guardò intorno e capì che l'ampio locale era qualcosa di più di una semplice cucina: aveva piuttosto l'aspetto di una combinazione fra un ufficio, un salotto e una cucina vera e propria. Si sorprese così a domandarsi se per avere tanto spazio era stato per caso necessario abbattere un muro. E si chiese cosa ne avrebbe pensato Susie: di certo anche lei sarebbe rimasta piuttosto sconcertata. Susie ci teneva che i locali della casa fossero ben definiti a seconda delle funzioni che dovevano espletare: la cucina serviva per lavorare, la sala da pranzo per mangiare, la camera da letto per dormire e, una volta la settimana, per fare l'amore. I due agenti si accomodarono su due comode poltrone di vimini ai lati del camino. Rickards provò una sensazione di conforto: sentiva che le sue membra erano state piacevolmente accolte e alloggiate dai cuscini. La signorina Mair sedette invece alla scrivania, e girò la poltroncina. «Naturalmente mio fratello mi ha messa al corrente del fatto ieri sera, appena rincasato. Purtroppo non posso esservi d'aiuto per quanto riguarda la morte di Hilary Robarts, poiché sono rimasta qui tutto il giorno e tutta la sera e non ho visto, né sentito niente. Ma posso raccontarvi qualcosa del ritratto. Gradite un caffè?»

Rickards l'avrebbe gradito, sì, e a dire la verità aveva anche una certa sete, ma declinò l'offerta per entrambi. Gli era parsa un pro forma, e non gli era sfuggita l'occhiata che la signorina Mair aveva lanciato al piano della scrivania, dov'erano ordinatamente ammonticchiati dei fogli stampati e un dattiloscritto. A quanto sembrava, l'avevano interrotta mentre correggeva delle bozze. Be', se Alice Mair aveva da fare, anche lui era molto impegnato. E la sua compostezza lo irritava. Non si era certo aspettato di trovarla in preda a una crisi isterica o sotto l'effetto di sedativi; la vittima non era una parente. Ma era stata una stretta collaboratrice di Alex Mair, era venuta al Martyr's Cottage e, stando a quanto affermato dall'ispettore Dalgliesh, vi aveva cenato anche quattro giorni prima. Era dunque strano che Alice Mair potesse starsene a correggere tranquillamente le sue bozze in quell'atmosfera, quando si trattava di un compito che richiedeva la massima attenzione. L'uccisione della Robarts era quantomeno motivo di distrazione e assenza mentale, e per superarle occorreva una buona dose di freddezza. Alice non era un'indiziata di primo piano: Rickards non lo vedeva come un omicidio commesso da una donna. Ma lasciò che il sospetto gli penetrasse nei meandri della mente e vi si incastrasse come un amo. Una donna straordinaria, pensò. Forse, alla resa dei conti, quell'interrogatorio si sarebbe rivelato più interessante e produttivo del previsto. «Lei cura la casa per suo fratello, signorina Mair?» «No, la curo per me. Mio fratello vive qui quando sta nel Norfolk, cioè per la maggior parte della settimana, naturalmente. Non potrebbe dirigere la centrale di Larksoken dal suo appartamento londinese. Se sono a casa e cucino, di solito dividiamo insieme i pasti. Penso che sarebbe irragionevole costringerlo a prepararsi un'omelette al solo scopo di ribadire il principio della divisione delle responsabilità domestiche. Ma non vedo cosa c'entri tutto questo con l'assassinio di Hilary Robarts. Non potremmo passare subito a ciò che è accaduto ieri sera?»

In quel momento, udirono bussare alla porta. Senza scusarsi, Alice Mair si alzò e andò in corridoio. Dall'entrata proveniva una voce femminile, quindi la signorina Mair tornò in cucina seguita da una donna. La presentò come la signora Dennison, della Vecchia Canonica. Era una donna graziosa e dall'aria gentile, vestita in modo tradizionale con una gonna di tweed e un cardigan in tinta. Aveva l'aria chiaramente addolorata. Rickards rimase favorevolmente colpito dal suo aspetto e dalla sua espressione. Era così che una donna doveva apparire e comportarsi dopo un omicidio tanto brutale. I due uomini si alzarono e la signora Dennison prese il posto del sergente Oliphant, che andò a prelevare una delle sedie della cucina.

D'impulso, la nuova ospite si rivolse all'ispettore capo Rickards: «Mi dispiace disturbare, ma dovevo assolutamente uscire di casa. È una notizia spaventosa, ispettore. È proprio certo che non possa essere stato il Fischiatore?».

«Questa volta non poteva essere lui, no.»

«I tempi non corrispondono» disse Alice Mair. «Te l'ho detto anche quando ti ho telefonato stamattina presto, Meg. La polizia non sarebbe qui, adesso, se non fosse così. Non può essere stato il Fischiatore.»

«Lo so, me l'hai detto, ma continuavo a sperare che ci fosse un equivoco, che prima avesse ucciso la signorina Robarts e soltanto dopo si fosse suicidato. Che lei fosse stata la sua ultima vittima, insomma.»

«In un certo senso lo è anche stata, signora Dennison» intervenne Rickards.

Alice Mair spiegò con calma: «Mi pare si chiami delitto in fotocopia. Ci sono parecchi psicopatici, al mondo, e sembra che sia un tipo di pazzia contagiosa».

«Certo, ma è orribile! Ora che ha incominciato continuerà anche lui, come il Fischiatore, una morte dopo l'altra... e nessuno potrà più sentirsi al sicuro?»

«Al suo posto non me ne preoccuperei, signora Dennison» disse Rickards.

Meg Dennison si voltò di scatto. «Ma è naturale che mi preoccupi! Dobbiamo preoccuparci tutti, invece. Abbiamo vissuto per tanto tempo sotto l'incubo del Fischiatore, trovo agghiacciante che questa storia ricominci senza nemmeno aver avuto il tempo di finire.»

Alice Mair si alzò. «Hai bisogno di un caffè, Meg. L'ispettore capo Rickards e il sergente Oliphant l'hanno rifiutato, ma penso che noi due faremmo meglio a concederci un corroborante.»

Rickards si intromise: «Be', signorina Mair, se sta già facendo il caffè per qualcun altro, credo che cambierò idea. Lo berrò con piacere e... senza dubbio la stessa cosa vale per lei, sergente».

E adesso, pensò, ci sarà un altro indugio mentre lei macina il caffè. Nessuno potrà dire una parola, con quel chiasso infernale. Perché non si limita a versare l'acqua bollente sui chicchi, come fanno tutti?

Ma il caffè era veramente ottimo, e Rickards dovette convenire che gli ci voleva proprio. La signora Dennison prese la tazza fra le mani e la tenne così, come una bimba con il latte caldo prima di andare a letto. Poi la posò sul focolare e si rivolse a Rickards. «Forse preferisce che me ne vada. Finisco di bere e torno alla Vecchia Canonica. Se vuole parlare anche con me, non mi muoverò da casa.»

«Tanto vale che resti e senta cos'è successo ieri sera. È interessante.» Poi, anche lei si rivolse all'ispettore: «Come le ho detto, sono sempre rimasta qui, dopo le cinque e mezzo. Mio fratello è uscito per andare alla centrale poco dopo le sette e mezzo e io ho cominciato a correggere le bozze. Ho messo in funzione la segreteria telefonica in modo da non essere interrotta».

«E non ha lasciato il cottage per nessun motivo durante tutta la serata?»

«Non prima delle nove e mezza, quando sono andata a casa dei Blaney. Ma forse sarà meglio che le racconti tutto in ordine cronologico, ispettore. Verso le otto e dieci ho staccato la segreteria pensando che avrebbe potuto arrivare una telefonata importante per mio fratello. È stato allora che ho sentito il messaggio di George Jago sulla morte del Fischiatore.»

«E non ha chiamato nessuno? Non le è venuto voglia di parlarne con qualcuno?»

«Sapevo che non era necessario. Jago ha un suo servizio informazioni: ci avrebbe pensato lui a far correre la notizia. Sono tornata in cucina a correggere le bozze fin dopo le nove e mezza. Poi ho deciso di andare a ritirare il ritratto di Hilary Robarts a casa di Ryan Blaney. Gli avevo promesso che l'avrei consegnato alla galleria di Norwich, mentre passavo per andare a Londra, e volevo partire presto l'indomani mattina. Ho un po' l'ossessione degli orari, e non volevo essere costretta a deviare apposta dal mio percorso. Ho telefonato allo Scudder's Cottage per dire a Blaney che sarei andata a ritirare il ritratto, ma l'apparecchio era occupato. Ho riprovato diverse volte, poi ho tirato fuori la macchina e sono andata direttamente là. Avevo preparato un biglietto da infilare sotto la porta, per dire che avevo preso il quadro come eravamo d'accordo.»

«Non era un po' insolito, signorina Mair? Perché invece non bussare alla porta per farsi consegnare il ritratto personalmente da Ryan Blaney?»

«Perché, la prima volta che avevo visto il quadro, Blaney mi aveva detto dove l'avrebbe messo e dove avrei potuto trovare l'interruttore della luce, sulla sinistra della porta. Mi è parso chiaro che non volesse essere disturbato da una mia visita al cottage. In quell'occasione c'era con me anche l'ispettore Dalgliesh.»

«A me pare ugualmente strano. Blaney doveva certo giudicarlo un bel ritratto, se desiderava esporlo in una mostra. Avrei pensato che ci tenesse a consegnarlo personalmente.»

«Davvero? A me non sembra. È un uomo molto riservato, in particolare dopo la morte della moglie. Non gradisce le visite, soprattutto di donne che potrebbero guardare con occhio critico il disordine che regna in casa e le condizioni dei figli. Posso capirlo. Anche a me non farebbe piacere.»

«Dunque è andata direttamente alla baracca nella quale Blaney dipinge. Dove si trova?»

«A una trentina di metri dal cottage, sulla sinistra. È una piccola baracca di legno. In origine doveva servire da lavanderia, o da dispensa per affumicare il pesce e la carne. Ho usato la mia torcia elettrica per arrivare alla porta, anche se non era indispensabile. C'era il chiaro di luna. La baracca non era chiusa a chiave, e se sta per dirmi che anche questo le sembra strano, allora non capisce cosa significa vivere sul promontorio. Abbiamo l'abitudine di non chiudere a chiave le porte. Non credo a che a Blaney verrebbe mai in mente di chiudere quella della baracca. Ho acceso la luce e ho visto che il quadro non era dove mi aspettavo di trovarlo.»

«Può descrivermi esattamente cosa è successo? Mi dia tutti i particolari, la prego, tutto quello di cui riesce a ricordarsi.»

«Stiamo parlando di ieri sera, ispettore. Sarebbe difficile essersene già dimenticati. Ho lasciato accesa la luce della baracca e sono andata a bussare alla porta del cottage. C'erano le luci accese al pianterreno, ma le tende erano tirate. Ho dovuto aspettare circa un minuto prima che Blaney comparisse. Ha socchiuso la porta senza invitarmi a entrare. "Buona sera, Ryan" gli dico. Lui mi risponde con un cenno, senza parlare. Emanava un forte odore di whisky. "Ero venuta a prendere il quadro, ma non è nella baracca, o almeno io non l'ho trovato." Allora Blaney mi dice, con voce impastata: "È a sinistra della porta, avvolto nei cartoni e nella carta da pacco. Un pacco marrone, fermato con il nastro adesivo". "No, no, non c'è" gli dico io. Allora Blaney è uscito dalla casa, senza fiatare e lasciando la porta aperta. Insieme siamo andati alla baracca.»

«Camminava a passo normale?»

«No, non era un passo normale, ma si reggeva in piedi. Quando ho detto che puzzava di whisky e parlava con voce impastata, non intendevo dire che era ubriaco fradicio. Ma ho avuto l'impressione che non avesse quasi mai staccato la bocca dal collo della bottiglia, ieri sera. Si è fermato sulla soglia della baracca, io gli stavo di fianco. Per mezzo minuto buono è rimasto in silenzio. Poi ha detto soltanto: "Sì, è sparito".»

«Che tono ha usato?» Poiché Alice Mair non rispondeva, Rickards insisté gentilmente: «Era sconvolto? Arrabbiato? Sorpreso? Oppure troppo sbronzo per curarsene?».

«Ho sentito la sua domanda, ispettore capo. Non sarebbe meglio chiederlo a lui, come si sentiva? Io posso soltanto descrivere che aspetto aveva, quello che ha detto e quello che ha fatto.»

«E che cosa ha fatto?»

«Si è girato e ha battuto i pugni contro lo stipite della porta. Poi ha appoggiato la testa contro il legno. Mi è sembrato un gesto istrionico, ma immagino fosse spontaneo e sincero.»

«E poi?»

«Gli ho detto: "Non dovremmo telefonare alla polizia? Possiamo farlo da qui, se il suo telefono funziona. Ho provato a chiamarla ma era sempre occupato". Non mi ha risposto, e quando è tornato indietro l'ho seguito fino al cottage. Di nuovo non mi ha invitata a entrare, e io sono rimasta lì mentre lui andava nel sottoscala a controllare. "Il ricevitore non è attaccato bene, ecco perché dava sempre occupato." E io ho insistito: "Perché non avvisa la polizia? È meglio denunciare subito il furto". Lui si è girato verso di me e ha detto, semplicemente: "Domani. Domani". Poi è tornato alla sua poltrona. Io non ho ceduto. "Chiama lei, Ryan, o devo farlo io? È molto importante." E lui: "Chiamerò io, domani. Buonanotte". Era chiaro che voleva starsene solo, così me ne sono andata via.»

«E durante questa visita ha visto soltanto il signor Blaney? I bambini non erano alzati?»

«Ho immaginato che fossero a letto. Non li ho visti e neppure sentiti.»

«E non avete parlato della morte del Fischiatore?»

«Be', ho pensato che il signor Jago avesse avvisato anche lui, forse prima di me. E poi, cosa c'era da discutere? Io e Ryan non eravamo dell'umore di metterci a chiacchierare.»

Tuttavia, pensò Rickards, da parte di entrambi era una strana forma di reticenza. Alice Mair aveva avuto tanta fretta di andarsene e Ryan Blaney di restare solo? Oppure, per uno dei due, un avvenimento più traumatico del furto della tela aveva momentaneamente scacciato il pensiero del Fischiatore?

C'era ancora una domanda di importanza vitale che Rickards doveva assolutamente porre ad Alice. Le implicazioni erano ovvie, e lei era una donna troppo intelligente per non riconoscerle. «Signorina Mair, dopo aver visto il signor Blaney in quelle condizioni, pensa che avrebbe potuto guidare una macchina?»

«Impossibile. E poi non ha una macchina, ma un furgoncino, che però non ha superato l'ultima revisione.»

«E la bicicletta?»

«Be', avrebbe potuto provare a pedalare, ma credo che sarebbe finito in un fosso in capo a due minuti.»

Rickards stava eseguendo mentalmente alcuni calcoli. Il risultato dell'autopsia non sarebbe stato pronto fino a mercoledì, ma se Hilary Robarts, secondo la sua abitudine, era andata a nuotare subito dopo i titoli del notiziario che, alla domenica, andava in onda alle nove e dieci, allora doveva essere morta intorno alle nove e mezzo. Alle nove e tre quarti o poco più tardi, stando a quanto affermato da Alice Mair, Ryan Blaney si trovava nel suo cottage, ubriaco. Certo non era realistico pensare che avesse potuto commettere un omicidio che richiedeva mano ferma, nervi saldi e la capacità di pianificare tutto, per poi tornarsene a casa entro le nove e tre quarti. Se Alice Mair non aveva mentito, con la sua deposizione aveva scagionato anche Blaney. E, d'altra parte, non sarebbe potuto accadere il contrario.

Rickards si era quasi scordato di Meg Dennison. Si voltò a guardarla. Stava seduta come una bambina angosciata, con le mani sulle ginocchia e la tazza del caffè ancora piena appoggiata sulle pietre del focolare.

«Signora Dennison, che il Fischiatore era morto l'ha saputo ieri sera?»

«Oh, sì. Il signor Jago ha telefonato anche a me, verso le dieci meno un quarto.»

«Con ogni probabilità aveva cercato di chiamarti anche prima, ma tu stavi andando alla stazione di Norwich con i Copley, no?» disse Alice.

«Doveva essere così, infatti» rispose Meg rivolgendosi direttamente all'ispettore, «ma la macchina s'è rotta. Ho dovuto telefonare in tutta fretta a Sparks, perché venisse a prenderci con il taxi. Per fortuna era libero, ma poi doveva proseguire fino a Ipswich, quindi non avrebbe potuto ricondurmi indietro. È stato lui ad accompagnare i Copley al treno.»

«E durante la serata ha mai lasciato la Vecchia Canonica?»

La signora Dennison alzò la testa e guardò Rickards diritto negli occhi. «No» disse. «Non ho mai lasciato la casa dopo che loro sono partiti.» Poi esitò un attimo e aggiunse: «Mi scusi, anzi, sono uscita in giardino per pochi minuti. Sarebbe dunque più esatto dire che non mi sono allontanata dalla proprietà. E adesso, se vuole scusarmi, sento il bisogno di tornare a casa».

Si alzò dalla poltrona, ma tornò subito a rivolgersi a Rickards: «Se desidera interrogarmi, mi troverà alla Vecchia Canonica».

Uscì prima che i due poliziotti potessero alzarsi. Alice Mair non accennò a seguirla, e dopo qualche secondo udirono la porta d'ingresso che si chiudeva.

Vi fu un attimo di silenzio. Lo interruppe Oliphant, che indicò il focolare e disse: «Strano, non ha nemmeno assaggiato il caffè».

Ma Rickards aveva un'ultima domanda da rivolgere alla padrona di casa. «Ieri sera doveva essere qui, verso mezzanotte, quando suo fratello è rientrato. Per caso aveva telefonato in centrale per sapere se era uscito o per quale motivo tardava tanto?»

«Non mi è venuto in mente» rispose Alice con estrema calma. «Vede, ispettore, Alex non è mio marito, né mio figlio, quindi non ho l'ossessione di controllare i suoi movimenti. Non sono il suo angelo custode.»

Oliphant la stava fissando con occhi cupi e sospettosi. «Però abita con lei, no? E parlate, no? Doveva essere al corrente della sua relazione con Hilary Robarts, per esempio. L'approvava?»

Alice Mair non cambiò espressione, ma la sua voce si era fatta d'acciaio. «Approvare o disapprovare sarebbe stata una presunzione e un'impertinenza, proprio come la sua domanda. Se desidera parlare della vita privata di mio fratello, le consiglio di farlo direttamente con lui.»

Senza alzare la voce, Rickards disse: «Signorina Mair, una donna è stata barbaramente assassinata. Era una donna che lei conosceva. Tenendo conto di questo gravissimo fatto, spero non si senta obbligata a mostrare alcuna forma di ipersensibilità nei confronti di domande che normalmente le potrebbero sembrare presuntuose e impertinenti».

La collera gli aveva donato un'eloquenza del tutto inaspettata. I loro occhi si incontrarono. Rickards sapeva che il suo sguardo era indurito dall'indignazione, sia per la mancanza di tatto da parte di Oliphant, sia per la reazione di Alice Mair. Ma gli occhi grigi che incontrarono i suoi e lo fissarono senza imbarazzo erano difficili da leggere. Gli parve di captarvi una certa sorpresa, seguita dalla diffidenza, da un riluttante rispetto e da un interesse quasi interrogativo.

E quando, dopo un quarto d'ora, accompagnò gli ospiti alla porta, Alice Mair tese loro la mano. Mentre Rickards ricambiava la stretta, gli disse: «La prego di perdonarmi, ispettore, se sono stata scortese. Il suo è un lavoro sgradevole ma necessario, e ha diritto alla collaborazione di tutti. Per quello che mi riguarda, l'avrà».

 

31

 

Anche senza quell'insegna sgargiante, nel Norfolk nessuno avrebbe avuto dubbi sull'identità dell'eroe locale da cui il pub di Lydsett prendeva il nome. E nessun forestiero avrebbe potuto confondere il suo cappello con la stella da ammiraglio, il petto carico di decorazioni, la benda nera su un occhio e la manica vuota e ripiegata all'insù, tenuta da una spilla. Rickards pensò che qualche ritratto di Lord Nelson più brutto di quello doveva averlo già visto... ma certo non erano stati molti. Sembrava la Principessa travestita.

George Jago aveva evidentemente deciso che il colloquio doveva aver luogo all'interno del bar, in quel momento immerso nella silenziosa penombra dell'orario di pausa, nel tardo pomeriggio. Jago e la moglie condussero Rickards e Oliphant a un tavolino con il piano di legno e le gambe di ghisa, situato in prossimità dell'enorme camino spento. Presero posto come quattro individui male assortiti che si accingono a dare inizio a una seduta spiritica nella semioscurità, o almeno quella fu l'impressione che ne ricavò l'ispettore. La signora Jago era una donna spigolosa, dagli occhi vivaci e dai lineamenti affilati, e guardava Oliphant come se di tipi come lui ne avesse visti spesso e non fosse disposta a tollerare scherzi. Esibiva un trucco vistoso. Due mezze lune di belletto rosso le illuminavano le guance, la bocca era enfatizzata da un rossetto in tinta e le dita adunche, dalle unghie scarlatte, erano cariche di anelli. I capelli erano di un nero tanto lucido da sembrare innaturale, raccolti sulla fronte in tre file di riccioli serrati e trattenuti da alcuni pettinini. Indossava una gonna a pieghe e una camicetta di stoffa frusta a righe rosse, bianche e blu abbottonata fino al collo e sovraccarica di catene d'oro, che la facevano assomigliare a un'attricetta a un'audizione per una parte da barista in una commedia di Ealing. Nessuna donna avrebbe potuto vestirsi in modo meno adatto per un pub di campagna; eppure, lei e il marito, seduti l'uno di fianco all'altro, parevano perfettamente a loro agio. Oliphant si era dato da fare per scoprire qualcosa del loro passato e ne aveva messo al corrente Rickards durante il tragitto in macchina. Jago era stato intestatario di un pub a Catford, ma da quattro anni i due coniugi si erano trasferiti a Lydsett anche perché il fratello della signora, tale Charlie Sparks, aveva un garage con autonoleggio al limitare del villaggio e stava cercando un aiutante part-time. Ogni tanto George Jago gli faceva da autista e lasciava alla moglie il compito di badare al pub. Si erano inseriti bene nella comunità locale, partecipavano alle iniziative e parevano non rimpiangere affatto la vita di città. Rickards pensò che dopotutto l'East Anglia aveva saputo accogliere individui ben più eccentrici di quelli. Aveva accolto persino lui!

George Jago era adatto anche nell'aspetto al ruolo di proprietario di un pub di campagna: grasso, con la faccia gioviale, gli occhi ammiccanti e un'energia repressa che senza dubbio doveva aver trovato finalmente sfogo nel locale. Il bar, con il soffitto basso a travi di quercia, era una specie di disordinato museo consacrato alla memoria di Nelson. Jago doveva aver girato in lungo e in largo tutta la regione alla ricerca di oggetti sia pure lontanamente legati all'Ammiraglio. Sopra il camino era appesa un'immensa litografia in cui, a bordo della Victory, Nelson spirava romanticamente fra le braccia di Hardy. Le altre pareti erano coperte di quadri e stampe che includevano le principali battaglie navali dell'Ammiraglio, il Nilo, Copenaghen, Trafalgar Square, un paio di ritratti di Lady Hamilton, una vistosa riproduzione della celebre tela di Romney, targhe commemorative allineate ai lati della porta e file di boccali-ricordo attaccati alle travi, pochissimi dei quali originali, a giudicare dalla brillantezza delle decorazioni. Lungo la sommità di una parete, una coda di bandiere da segnalazione lanciavano il famoso segnale e, per accrescere l'atmosfera marinara, una rete da pesca era stata drappeggiata attraverso il soffitto. Di colpo, sollevando gli occhi verso la rete color catrame, Rickards ricordò: era già stato lì. Una volta, mentre esploravano la costa durante il primo inverno di matrimonio, lui e Susie si erano fermati al Locai Hero a bere qualcosa. Non si erano trattenuti a lungo: Susie si era lamentata per la troppa gente e il troppo fumo. Rickards ricordava ancora la panca su cui si erano seduti, contro il muro a sinistra della porta. Lui aveva bevuto una mezza pinta di birra, Susie uno sherry. Allora, con il fuoco acceso e le fiamme che guizzavano dai ceppi scoppiettanti, con quell'allegro sottofondo di voci, il pub gli era sembrato intimo e nostalgicamente interessante. Ma adesso, nella fioca luce di un pomeriggio d'autunno, quella massa di oggetti fasulli e trascurabili riusciva solo a banalizzare e sminuire la lunga storia del locale e delle imprese dell'Ammiraglio. Fu assalito da un improvviso senso di claustrofobia, e dovette lottare contro l'impulso di spalancare la porta per fare entrare un po' di aria vera e il ventesimo secolo.

Come Oliphant ebbe a osservare più tardi, interrogare Jago era un piacere. Non salutava il poliziotto quasi fosse un tecnico necessario ma sgradito e di dubbia capacità, uno capace in pratica di far solo perdere del tempo, e non usava le parole come se fossero segnali segreti per nascondere i pensieri anziché per esprimerli, evitando di intimidire l'interrogante con la propria superiorità intellettuale. Jago non considerava il colloquio con la polizia come uno scontro fra intelletti in cui lui sarebbe partito già in vantaggio, e non reagiva alle domande più normali con uno sconcertante miscuglio di paura e spirito di sopportazione, quasi si fosse trovato al cospetto di un esponente della polizia segreta di qualche regime totalitario. Tutto sommato, fece notare Oliphant a tempo debito, quell'atteggiamento costituiva un diversivo alquanto piacevole. Jago ammise allegramente di aver telefonato ai Blaney e alla signorina Mair poco dopo le sette e mezzo di domenica sera, per annunciare che il Fischiatore era morto. Come lo sapeva? Ma perché uno dei poliziotti che partecipava alle indagini aveva telefonato a casa per comunicare alla moglie che quella sera la loro figlia avrebbe potuto recarsi tranquillamente da sola a una festa, e così la donna aveva telefonato a suo fratello Harry Upjohn, titolare del Crown & Anchor, nei pressi di Cromer; e Harry, che era suo amico, gli aveva passato subito la notizia. Ricordava con precisione ciò che aveva detto a Theresa Blaney: «Dì al tuo papà che hanno trovato il corpo del Fischiatore. È morto. Suicida. Si è ucciso a Easthaven. Non c'è più ragione di preoccuparsi».

Aveva telefonato ai Blaney perché sapeva che a Ryan piaceva bere, la sera, ma non osava lasciare soli i figli finché c'era in giro il Fischiatore. Quella sera Blaney non era venuto al pub, ma ciò non era particolarmente indicativo; aveva lasciato il messaggio per la signorina Mair sulla segreteria telefonica, più o meno negli stessi termini. Non aveva telefonato alla signora Dennison, invece, perché pensava che fosse andata a Norwich ad accompagnare i Copley.

«Più tardi, però, le ha telefonato?» chiese Rickards.

Questa volta fu la moglie di Jago a spiegare. «Sì, dopo che gliel'ho rammentato io. Ero andata alla funzione delle sei e mezzo, poi sono andata a casa di Sadie Sparks per discutere i preparativi della vendita di beneficenza. Sadie ha trovato un biglietto di Charlie: diceva che era uscito per due lavori urgenti, accompagnare i Copley a Norwich e poi passare a prendere una coppia a Ipswich. Così, quando sono tornata indietro ho detto a George che la signora Dennison non aveva portato i Copley fino in stazione, e dunque poteva telefonarle anche subito per dirle del Fischiatore. Credevo che avrebbe dormito sonni più tranquilli se avesse saputo che era morto, invece di continuare a chiedersi se non fosse per caso in agguato fra i cespugli della Vecchia Canonica. È stato solo allora che George l'ha chiamata.»

«Erano quasi le nove e un quarto, credo. Comunque le avrei telefonato più tardi, sapevo che verso le nove e mezzo sarebbe rientrata.»

«E la signora Dennison ha risposto al telefono?» chiese Rickards.

«Sul momento no. Però dopo mezz'ora ho riprovato e l'ho trovata.»

«Quindi» disse Rickards, «non ha detto a nessuno che il cadavere è stato ritrovato al Balmoral Hotel?»

«E come facevo a saperlo? Harry Upjohn mi aveva detto soltanto che avevano trovato il Fichiatore e che era morto. Ho pensato che la polizia volesse tenere nascosto il luogo del ritrovamento perché la gente non si precipitasse a curiosare. Non credo che al padrone dell'albergo avrebbe fatto troppo piacere, no?»

«E stamattina presto ha ritelefonato a tutti per dire che era stata assassinata la signorina Robarts. Questo come l'ha scoperto?»

«Ho visto passare le macchine della polizia, no? Allora ho preso la bicicletta e sono andato su fino al cancello. I vostri l'avevano aperto, così io l'ho richiuso e ho aspettato. Quando sono tornati indietro gliel'ho riaperto e ho chiesto cos'era successo.»

«Si direbbe che lei sia abilissimo nell'ottenere informazioni dalla polizia» osservò Rickards.

«Be', conosco qualcuno dei vostri uomini. Quelli del posto, se non altro: vengono a bere qui da me. L'autista della prima macchina non ha voluto aprire il becco, e neanche quello del furgone mortuario. Ma quando è arrivata la terza automobile e si è fermata mentre aprivo e chiudevo di nuovo il cancello, ho chiesto chi era il morto e me l'hanno detto. Voglio dire, sono capace di riconoscere un furgone per il trasporto delle salme, quando lo vedo, no?»

«Chi è stato a dirglielo?» chiese Oliphant in tono bellicoso. George Jago lo guardò con aria innocente.

«Come faccio a saperlo? I poliziotti si assomigliano un po' tutti. Me l'ha detto qualcuno.»

«E così ha fatto un altro giro di telefonate stamattina? Perché ha aspettato?»

«Perché ormai era mezzanotte passata. Alla gente fa piacere sentire le novità, però preferisce dormire. Oggi la prima cosa che ho fatto è stata di chiamare Ryan Blaney.»

«Perché proprio lui?»

«Perché no? Quando si ha una notizia, è nella natura umana passarla agli interessati.»

«E Blaney era interessato, senza dubbio. Per lui dev'essere stato un vero sollievo» commentò Oliphant.

«Forse sì e forse no. Non ho parlato con lui. L'ho detto a Theresa.»

«Dunque» riprese Oliphant, «non ha parlato con Blaney né ieri sera, né stamattina. Un po' strano, no?»

«Dipende dal punto di vista. La prima volta era nella baracca dove dipinge. Quando lavora non gli piace che lo si chiami al telefono. Comunque non aveva importanza. L'ho detto a Theresa e Theresa l'ha detto a lui.»

«Come fa a essere sicuro che gliel'ha detto?»

«Be', ma perché me l'ha confermato lei stessa questa mattina. Per quale motivo non avrebbe dovuto dirglielo?»

«Però non può essere assolutamente certo che sia andata proprio così.»

A quel punto intervenne la signora Jago. «E lei non è assolutamente certo che non gliel'abbia detto, invece. E comunque sia, che importanza ha? Adesso lo sa anche lui, tutti lo sappiamo. Sappiamo del Fischiatore e sappiamo della signorina Robarts. E forse, se aveste catturato il Fischiatore un anno fa, oggi la signorina Robarts sarebbe ancora viva.»

«Che intende dire con questo, signora Jago?» chiese prontamente Oliphant.

«È stato quello che chiamano un delitto in fotocopia, no? Se ne parla in tutto il paese, a parte quelli convinti che sia stato il Fischiatore e che voi abbiate sbagliato i tempi. E il vecchio Humphrey, naturalmente: lui crede addirittura che sia stato il fantasma del Fischiatore.»

«A noi interessa un certo ritratto della signorina Robarts» intervenne Rickards. «Lo aveva dipinto di recente Ryan Blaney. Lo avete mai visto? Ve ne ha parlato?»

«Certo che l'abbiamo visto» disse la signora Jago. «Lo abbiamo tenuto qui nel pub, in mostra. E sapevo che avrebbe portato sfortuna. Era un quadro malefico, se mai ho visto qualcosa che si possa chiamare così.»

Jago si rivolse alla moglie e con enfasi e pazienza prese a spiegare: «Non so come fai a dire che un quadro è malefico, Doris. Le cose non sono malefiche. Un oggetto inanimato non è né buono né cattivo. Sono gli uomini a fare il male».

«E a pensarlo, George; e quel quadro veniva fuori da pensieri malefici, per questo dico che era malefico.»

La signora Jago aveva parlato con fermezza, ma senza ostinazione o risentimento. Evidentemente era un tipo di discussione che piaceva a entrambi, uno scambio di vedute senza alcuna acrimonia. Per qualche minuto i due coniugi parvero dimenticarsi della polizia.

«D'accordo, riconosco che non era proprio un quadro che veniva voglia di appendere in salotto» ammise Jago.

«E nemmeno nel bar. È un vero peccato che tu abbia accettato, George.»